E’ morto all’alba, circondato dal brusio della grande megalopoli che si metteva in movimento. Jorge Videa avrebbe compiuto 88 anni ad agosto. In carcere ne aveva già trascorsi una trentina, gli restavano due ergastoli e 50 anni per crimini contro l’umanità. Qualche mese fa il dittatore aveva di nuovo riproposto al mondo la sua verità , questa volta non affidandola ai giudici di un tribunale – che non gli hanno mai creduto – ma ad un giornalista, Ceferino Reato. Una ventina di ore di colloqui poi raccolti e pubblicati in un libro dal titolo emblematico: “Disposicion final”. Jorge Videla ha così scosso l’opinione pubblica un’ultima volta, ridimensionando, a suo modo, le proprie responsabilità negli anni della dittatura ma ammettendo quello che già si sapeva. “C’era bisogno della morte di circa 7000-8000 persone per la vittoria contro la sovversione, non abbiamo potuto sparare. Né potemmo consegnarli alla giustizia”, ha dichiarato nel corso delle interviste. La “Disposición final” del titolo altro non è che l’espressione usata dai vertici militari per alludere ai sequestri e alle sparizioni. Videla ha anche detto che “dal punto di vista strettamente militare non avevamo bisogno di un golpe, è stato un errore”, e che è stato attuato “non tanto per sconfiggere la guerriglia ma per disciplinare la società, soprattutto i lavoratori”. La decisione di ricorrere alle sparizioni venne presa “nel corso degli eventi”. “Non c’era altra soluzione (i capi delle forze armate) eravamo d’accordo che era il prezzo da pagare. Avevamo bisogno che la società non si rendesse conto. Bisognava eliminare un numero grande di persone che non potevano essere portate davanti alla giustizia e neppure fucilate”.
Il giornalista che l’ha intervistato ha detto di non averlo trovato pentito. “Non era pentito, di nulla, ma aveva un dolore nell’anima, forse sentiva il bisogno, data l’età, di chiarire la sua posizione. Sapeva che non sarebbe mai uscito di prigione”.
E così è stato. Il dittatore ha chiuso gli occhi per sempre proprio nel carcere dove era rinchiuso, a Marcos Paz.
Papa Francesco, all’epoca provinciale dei gesuiti, incontrò Videla due volte in vita e altrettante il capo della Marina ammiraglio Emilio Massera. Andò anche a celebrare messa in una caserma dove si presumeva venissero portati i sequestrati e gli oppositori arrestati. E’ lo stesso Borgoglio a parlarne in una deposizione davanti al Tribunale Federale per i crimini contro l’umanità commessi dalla dittatura, resa per iscritto il 23 aprile 2011 rispondendo a 33 questioni che gli vennero poste dai giudici. Nella deposizione Bergoglio spiega che gli incontri con Videla li aveva chiesti per cercare di «scoprire quale cappellano militare celebrava la Messa» nei centri di tortura. Una volta appreso il nome direttamente da Videla, Bergoglio con uno stratagemma convinse il prete-soldato «a darsi malato e a mandare me al suo posto». «Ricordo che era un sabato pomeriggio e tenni Messa nella residenza del comandante in capo dell’esercito – ha ricostruito Bergoglio –, davanti a tutta la famiglia di Videla. Poi ho chiesto di parlare con lui, con Videla, proprio per capire dove tenessero i sacerdoti arrestati». Al centro della testimonianza di quasi quattro ore resa dal futuro Papa c’era l’ormai nota vicenda dei due gesuiti Orlando Yorio e Francisco Jalics, che furono tenuti prigionieri e torturati nei locali della Scuola di meccanica per cinque mesi.