I riti della domenica delle palme – celebrati oggi in ogni chiesa del pianeta – ci riportano al cuore della nostra fede. Dopo una settimana, segnata da tante asfittiche controversie tutte interne al perimetro della curia romana. Allora torniamo lì a Gerusalemme. Tra gli osanna della folla che presto si tramutano nelle urla del crucifige, in quello strano referendum tra un messia inerme e deriso e il fondamentalista Barabba. Gli apostoli impauriti, il tradimento di Pietro e lo sguardo di Gesù che scioglie la vergogna in pianto: lacrime che diventano di gioia di fronte all’annuncio inatteso del Signore risorto.
Vani sarebbero tutti i nostri affanni se solo di pie leggende si trattasse e non dello stupore di incontri reali, possibili anche oggi, in forme diverse da quelle dei primi discepoli ma con la stessa forza attrattiva. Perderebbe altrimenti ogni senso la chiesa stessa, la sua unità, le sue parole, le sue strutture, il suo agire nel mondo. Verità che oggi non si contesta ma suona astratta.
E il problema è proprio qui: che il grande struggente mistero che celebriamo in questa settimana santa possa apparirci esistenzialmente lontano. Sfuocato rispetto a ciò che si vede più urgente e si sente più caro. Così che le diatribe ecclesiastiche possano sembrarci più concrete e reali della stupenda corsa di Pietro e Giovanni, con il cuore in gola, verso il sepolcro vuoto.