Dieci anni fa, il 31 maggio 2017, presso il santuario della Madonna di Aparecida, in Brasile, si concludevano i lavori della Quinta Conferenza generale degli Episcopati dell’America Latina e dei Caraibi, CELAM. Papa Francesco – che al contrario di quanto era il suo desiderio non ha potuto vedere realizzata la sua “promessa” – (“Che Nostra Signora di Aparecida vi protegga. E arrivederci nel 2017, quando ritornerò…“, disse ai fedeli e pellegrini il 24 luglio 2013 dal balcone del santuario) – su questa importante Conferenza e soprattutto sul documento conclusivo parlò ampiamente la domenica 28 luglio 2013 presso il Centro Studi di Sumaré, Rio de Janeiro, ai vescovi responsabili dei diversi dipartimenti del CELAM in occasione di una Riunione di coordinamento. Come è ben noto l’allora arcivescovo di Buenos Aires, cardinale Jorge Mario Bergoglio, per decisione della plenaria episcopale continentale, fu la guida e il responsabile della Commissione che scrisse il documento finale. Nella sua allocuzione del 28 luglio 2013, J. M. Bergoglio, ormai Papa Francesco esordì così: “Come voi, anch’io sono testimone del forte impulso dello Spirito nella Quinta Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi ad Aparecida nel maggio del 2007, che continua ad animare i lavori del CELAM per l’anelato rinnovamento delle Chiese particolari. Tale rinnovamento in buona parte di esse è già in processo. Desidererei centrare questa conversazione sul patrimonio ereditato da quell’incontro fraterno che tutti abbiamo battezzato come Missione Continentale.”
Le 4 caratteristiche peculiari di Aparecida. Subito dopo il Papa parlò delle “caratteristiche peculiari di Aparecida”, osservando: “Vi sono quattro caratteristiche che sono proprie della Quinta Conferenza. Sono come quattro colonne dello sviluppo di Aparecida e che le conferiscono la sua propria originalità.
1. Inizio senza documento. Medellín, Puebla e Santo Domingo cominciarono i propri lavori con un cammino di preparazione che culminò in una specie di Instrumentum laboris, con il quale si svilupparono la discussione, la riflessione e l’approvazione del documento finale. Invece Aparecida promosse la partecipazione delle Chiese particolari come cammino di preparazione che culminò in un documento di sintesi. Questo documento, sebbene fu di riferimento durante la Quinta Conferenza Generale, non fu assunto come documento di partenza. Il lavoro iniziale consistette nel porre in comune le preoccupazioni dei Pastori davanti al cambio di epoca e la necessità di rinnovare la vita di discepolato e missionaria con la quale Cristo fondò la Chiesa.
2. Ambiente di preghiera con il Popolo di Dio. È importante ricordare l’ambiente di orazione generato dalla condivisione quotidiana dell’Eucaristia e degli altri momenti liturgici, dove fummo sempre accompagnati dal Popolo di Dio. D’altro canto, per il fatto che i lavori ebbero luogo nel sottosuolo del Santuario, la “musica funzionale” che li accompagnava furono i canti e le preghiere dei fedeli.
3. Documento che si prolunga in impegno, con la Missione Continentale. In questo contesto di preghiera e di vita di fede sorse il desiderio di una nuova Pentecoste per la Chiesa e l’impegno della Missione Continentale. Aparecida non termina con un Documento, ma si prolunga nella Missione Continentale.
4. La presenza di Nostra Signora, Madre dell’America. È la prima Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi che si realizza in un Santuario mariano.
Poi, Papa Francesco, continuò la sua allocuzione così come viene riportata.
Dimensioni della Missione Continentale. La Missione Continentale si proietta in due dimensioni: programmatica e paradigmatica. La missione programmatica, come indica il suo nome, consiste nella realizzazione di atti di indole missionaria. La missione paradigmatica, invece, implica il porre in chiave missionaria le attività abituali delle Chiese particolari. Evidentemente, qui si dà, come conseguenza, tutta una dinamica di riforma delle strutture ecclesiali. Il “cambiamento delle strutture” (da caduche a nuove) non è frutto di uno studio sull’organizzazione dell’impianto funzionale ecclesiastico, da cui risulterebbe una riorganizzazione statica, bensì è conseguenza della dinamica della missione. Ciò che fa cadere le strutture caduche, ciò che porta a cambiare i cuori dei cristiani, è precisamente la missionarietà. Da qui l’importanza della missione paradigmatica. La Missione Continentale, sia programmatica sia paradigmatica, esige generare la coscienza di una Chiesa che si organizza per servire tutti i battezzati e gli uomini di buona volontà. Il discepolo di Cristo non è una persona isolata in una spiritualità intimista, ma una persona in comunità per darsi agli altri. Missione Continentale implica pertanto appartenenza ecclesiale. Un’impostazione come questa, che comincia con il discepolato missionario e implica il comprendere l’identità del cristiano come appartenenza ecclesiale, richiede che ci esplicitiamo quali sono le sfide vigenti della missionarietà del discepolato. Ne evidenzierò solamente due: il rinnovamento interno della Chiesa e il dialogo con il mondo attuale.
Rinnovamento interno della Chiesa. Aparecida ha proposto come necessaria la Conversione Pastorale. Questa conversione implica credere nella Buona Novella, credere in Gesù Cristo portatore del Regno di Dio, nella sua irruzione nel mondo, nella sua presenza vittoriosa sul male, credere nell’assistenza e guida dello Spirito Santo, credere nella Chiesa, Corpo di Cristo e prolungatrice del dinamismo dell’Incarnazione. In questo senso, è necessario che, come Pastori, ci poniamo interrogativi che fanno riferimento alle Chiese che presiediamo. Queste domande servono da guida per esaminare lo stato delle Diocesi nell’assunzione dello spirito di Aparecida e sono domande che conviene ci poniamo frequentemente come esame di coscienza.
1.Facciamo in modo che il nostro lavoro e quello dei nostri Presbiteri sia più pastorale che amministrativo? Chi è il principale beneficiario del lavoro ecclesiale, la Chiesa come organizzazione o il Popolo di Dio nella sua totalità?
2. Superiamo la tentazione di prestare attenzione in maniera reattiva ai complessi problemi che sorgono? Creiamo una consuetudine pro-attiva? Promuoviamo spazi e occasioni per manifestare la misericordia di Dio? Siamo consapevoli della responsabilità di riconsiderare le attività pastorali e il funzionamento delle strutture ecclesiali, cercando il bene dei fedeli e della società?
3. Nella pratica, rendiamo partecipi della Missione i fedeli laici? Offriamo la Parola di Dio e i Sacramenti con la chiara coscienza e convinzione che lo Spirito si manifesta in essi?
4. E’ un criterio abituale il discernimento pastorale, servendoci dei Consigli Diocesani? Tali Consigli, e quelli parrocchiali di Pastorale e degli Affari Economici sono spazi reali per la partecipazione laicale nella consultazione, organizzazione e pianificazione pastorale? Il buon funzionamento dei Consigli è determinante. Credo che siamo molto in ritardo in questo.
5. Noi Pastori, Vescovi e Presbiteri, abbiamo consapevolezza e convinzione della missione dei fedeli e diamo loro la libertà perché vadano discernendo, conformemente al loro cammino di discepoli, la missione che il Signore affida loro? Li appoggiamo e accompagniamo, superando qualsiasi tentazione di manipolazione o indebita sottomissione? Siamo sempre aperti a lasciarci interpellare nella ricerca del bene della Chiesa e la sua Missione nel mondo?
6. Gli operatori pastorali e i fedeli in generale si sentono parte della Chiesa, si identificano con essa e la avvicinano ai battezzati distanti e lontani?
Come si può capire qui sono in gioco gli atteggiamenti. La Conversione pastorale concerne principalmente gli atteggiamenti e una riforma di vita. Un cambiamento di atteggiamenti necessariamente è dinamico: «entra in processo» e solo lo si può incanalare accompagnandolo e discernendo. E importante tener sempre presente che la bussola per non perdersi in questo cammino è quella della identità cattolica concepita come appartenenza ecclesiale.
Dialogo con il mondo attuale. E’ bene ricordare le parole del Concilio Vaticano II: le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, soprattutto dei poveri e di quanti soffrono, sono a loro volta gioie e speranze, tristezze e angosce dei discepoli di Cristo (cfr. Cost. Gaudium et spes, 1). Qui risiede il fondamento del dialogo col mondo attuale. La risposta alle domande esistenziali dell’uomo di oggi, specialmente delle nuove generazioni, prestando attenzione al loro linguaggio, comporta un cambiamento fecondo che bisogna percorrere con l’aiuto del Vangelo, del Magistero e della Dottrina Sociale della Chiesa. Gli scenari e areopaghi sono i più svariati. Per esempio, in una stessa città, esistono vari immaginari collettivi che configurano “diverse città”. Se noi rimaniamo solamente nei parametri de “la cultura di sempre”, in fondo una cultura di base rurale, il risultato finirà con l’annullare la forza dello Spirito Santo. Dio sta in tutte le parti: bisogna saperlo scoprire per poterlo annunciare nell’idioma di ogni cultura; e ogni realtà, ogni lingua, ha un ritmo diverso.
Alcune tentazioni contro il discepolato missionario. L’opzione per la missionarietà del discepolo sarà sottoposta a tentazione. E’ importante sapere capire la strategia dello spirito cattivo per aiutarci nel discernimento. Non si tratta di uscire a cacciare demoni, ma semplicemente di lucidità ed astuzia evangelica. Menziono solo alcune attitudini che configurano una Chiesa “tentata”. Si tratta di conoscere certe proposte attuali che possono mimetizzarsi nella dinamica del discepolato missionario e arrestare, fino a farlo fallire, il processo di conversione pastorale.
1.La ideologizzazione del messaggio evangelico. È una tentazione che si ebbe nella Chiesa fin dal principio: cercare un’ermeneutica di interpretazione evangelica al di fuori dello stesso messaggio del Vangelo e al di fuori della Chiesa. Un esempio: Aparecida, in un certo momento, soffrì questa tentazione sotto forma di “asepsi”. Si utilizzò, e va bene, il metodo di «vedere, giudicare, agire» (cfr. n. 19). La tentazione risiedeva nell’optare per un “vedere” totalmente asettico, un “vedere” neutro, il che è irrealizzabile. Sempre il vedere è influenzato dallo sguardo. Non esiste un’ermeneutica asettica. La domanda era, allora: Con quale sguardo andiamo a vedere la realtà? Aparecida rispose: con sguardo di discepolo. Così si intendono i numeri dal 20 al 32. Vi sono altre maniere di ideologizzazione del messaggio e, attualmente, appaiono nell’America Latina e nei Caraibi proposte di questa indole. Ne menziono solo alcune:
a) Il riduzionismo socializzante. È la ideologizzazione più facile da scoprire. In alcuni momenti fu molto forte. Si tratta di una pretesa interpretativa in base a una ermeneutica secondo le scienze sociali. Comprende i campi più svariati: dal liberismo di mercato fino alle categorizzazioni marxiste.
b) L’ideologizzazione psicologica. Si tratta di un’ermeneutica elitaria che, in definitiva, riduce l’“incontro con Gesù Cristo” e il suo ulteriore sviluppo, a una dinamica di autoconoscenza. Si è soliti fornirla principalmente in corsi di spiritualità, ritiri spirituali, ecc. Finisce col risultare un atteggiamento immanente autoreferenziale. Non sa di trascendenza e, pertanto, di missionarietà.
c) La proposta gnostica. Abbastanza legata alla tentazione precedente. E’ solita verificarsi in gruppi di élites con una proposta di spiritualità superiore, abbastanza disincarnata, che finisce con l’approdare in atteggiamenti pastorali di “quaestiones disputatae”. Fu la prima deviazione della comunità primitiva e riappare, nel corso della storia della Chiesa, con edizioni rivedute e corrette. Volgarmente li si chiama “cattolici illuminati” (per essere attualmente eredi della cultura illuminista).
d) La proposta pelagiana. Appare fondamentalmente sotto forma di restaurazione. Davanti ai mali della Chiesa si cerca una soluzione solo disciplinare, nella restaurazione di condotte e forme superate che, neppure culturalmente, hanno capacità di essere significative. In America Latina, si verifica in piccoli gruppi, in alcune nuove Congregazioni Religiose, in tendenze esagerate alla “sicurezza” dottrinale o disciplinare. Fondamentalmente è statica, sebbene possa ripromettersi una dinamica ad intra, che involuziona. Cerca di “recuperare” il passato perduto.
2. Il funzionalismo. La sua azione nella Chiesa è paralizzante. Più che con la realtà del cammino, si entusiasma con “la tabella di marcia del cammino”. La concezione funzionalista non tollera il mistero, va alla efficacia. Riduce la realtà della Chiesa alla struttura di una ONG. Ciò che vale è il risultato constatabile e le statistiche. Da qui si va a tutte le modalità imprenditoriali di Chiesa. Costituisce una sorta di “teologia della prosperità” nell’aspetto organizzativo della Pastorale.
3. Il clericalismo è anche una tentazione molto attuale nell’America Latina. Curiosamente, nella maggioranza dei casi, si tratta di una complicità peccatrice: il parroco clericalizza e il laico gli chiede per favore che lo clericalizzi, perché in fondo gli risulta più comodo. Il fenomeno del clericalismo spiega, in gran parte, la mancanza di maturità e di libertà cristiana in parte del laicato latinoamericano. O non cresce (la maggioranza), o si rannicchia sotto coperture di ideologizzazioni come quelle già viste, o in appartenenze parziali e limitate. Esiste nelle nostre terre una forma di libertà laicale attraverso esperienze di popolo: il cattolico come popolo. Qui si vede una maggiore autonomia, in generale sana, che si esprime fondamentalmente nella pietà popolare. Il capitolo di Aparecida sulla pietà popolare descrive con profondità questa dimensione. La proposta dei gruppi biblici, delle comunità ecclesiali di base e dei Consigli pastorali vanno nella linea del superamento del clericalismo e di una crescita della responsabilità laicale.
Potremmo proseguire descrivendo alcune altre tentazioni contro il discepolato missionario ma credo che queste siano le più importanti e con maggiore forza in questo momento in America Latina e nei Caraibi.
Alcuni criteri ecclesiologici.
1. Il discepolato-missionario che Aparecida propose alle Chiesa dell’America Latina e dei Caraibi è il cammino che Dio vuole per questo “oggi”. Tutta la proiezione utopica (verso il futuro) o restaurazionista (verso il passato) non è dello spirito buono. Dio è reale e si manifesta nell’“oggi”. Verso il passato, la sua presenza si dà a noi come “memoria” della grande opera della salvezza sia nel suo popolo sia in ognuno di noi; verso il futuro si dà a noi come “promessa” e speranza. Nel passato Dio è stato presente e lasciò la sua orma: la memoria ci aiuta ad incontrarlo; Nel futuro è solo promessa… e non è nei mille e uno “futuribili”. L’“oggi” è il più simile all’eternità; ancora di più: l’“oggi” è scintilla di eternità. Nell’“oggi” si gioca la vita eterna. Il discepolato missionario è vocazione: chiamata e invito. Si dà in un “oggi” però “in tensione”. Non esiste il discepolato missionario statico. Il discepolo missionario non può possedere se stesso, la sua immanenza è in tensione verso la trascendenza del discepolato e verso la trascendenza della missione. Non ammette l’autoreferenzialità: o si riferisce a Gesù Cristo o si riferisce al popolo a cui si deve annunciare. Soggetto che si trascende. Soggetto proiettato verso l’incontro: l’incontro con il Maestro (che ci unge discepoli) e l’incontro con gli uomini che aspettano l’annuncio. Per questo mi piace dire che la posizione del discepolo missionario non è una posizione di centro bensì di periferie: vive in tensione verso le periferie, incluse quelle dell’eternità nell’incontro con Gesù Cristo. Nell’annuncio evangelico, parlare di “periferie esistenziali” decentra e abitualmente abbiamo paura di uscire dal centro. Il discepolo missionario è un “decentrato”: il centro è Gesù Cristo, che convoca e invia. Il discepolo è inviato alle periferie esistenziali.
2. La Chiesa è istituzione, ma quando si erige in “centro” si funzionalizza e un poco alla volta si trasforma in una ONG. Allora la Chiesa pretende di avere luce propria e smette di essere quel “misterium lunae” del quale ci parlano i Santi Padri. Diventa ogni volta più autoreferenziale e si indebolisce la sua necessità di essere missionaria. Da “Istituzione” si trasforma in “Opera”. Smette di essere Sposa per finire con l’essere Amministratrice; da Serva si trasforma in “Controllore”. Aparecida vuole una Chiesa Sposa, Madre, Serva, più facilitatrice della fede che controllore della fede.
3. Ad Aparecida si danno in maniera rilevante due categorie pastorali che sorgono dalla stessa originalità del Vangelo e possono anche servirci da criterio per valutare il modo in cui viviamo ecclesialmente il discepolato missionario: la vicinanza e l’incontro. Nessuno dei due è nuovo, ma costituiscono la modalità in cui Dio si è rivelato nella storia. È il “Dio vicino” al suo popolo, vicinanza che raggiunge il punto massimo nell’incarnazione. È il Dio che esce incontro al suo popolo. Esistono in America Latina e nei Caraibi pastorali “lontane”, pastorali disciplinari che privilegiano i principi, le condotte, i procedimenti organizzativi, ovviamente senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza. Si ignora la “rivoluzione della tenerezza” che provocò l’incarnazione del Verbo. Vi sono pastorali impostate con una tale dose di distanza che sono incapaci di raggiungere l’incontro: incontro con Gesù Cristo, incontro con i fratelli. Da questo tipo di pastorali ci si può attendere al massimo una dimensione di proselitismo, ma mai portano a raggiungere né l’inserimento ecclesiale, né l’appartenenza ecclesiale. La vicinanza crea comunione e appartenenza, rende possibile l’incontro. La vicinanza acquisisce forma di dialogo e crea una cultura dell’incontro. Una pietra di paragone per calibrare la vicinanza e la capacità d’incontro di una pastorale è l’omelia. Come sono le nostre omelie? Ci avvicinano all’esempio di nostro Signore, che “parlava come chi ha autorità” o sono meramente precettive, lontane, astratte?
4. Colui che conduce la pastorale, la Missione Continentale (sia programmatica che paradigmatica), è il Vescovo. Il Vescovo deve condurre, che non è la stessa cosa che spadroneggiare. Oltre a sottolineare le grandi figure dell’episcopato latinoamericano che tutti conosciamo, desidero aggiungere qui alcune linee sul profilo del Vescovo che ho già detto ai Nunzi nella riunione che abbiamo avuto a Roma. I Vescovi devono essere Pastori, vicini alla gente, padri e fratelli, con molta mansuetudine; pazienti e misericordiosi. Uomini che amano la povertà, tanto la povertà interiore come libertà davanti al Signore, quanto la povertà esteriore come semplicità e austerità di vita. Uomini che non abbiano “psicologia da principi”. Uomini che non siano ambiziosi e che siano sposi di una Chiesa senza stare in attesa di un’altra. Uomini capaci di vegliare sul gregge che è stato loro affidato e di avere cura di tutto ciò che lo tiene unito: vigilare sul loro popolo con attenzione sugli eventuali pericoli che lo minacciano ma soprattutto per accrescere la speranza: che abbiano sole e luce nei cuori. Uomini capaci di sostenere con amore e pazienza i passi di Dio nel suo popolo. E il posto del Vescovo per stare col suo popolo è triplice: o davanti per indicare il cammino, o nel mezzo per mantenerlo unito e neutralizzare gli sbandamenti, o dietro per evitare che nessuno rimanga indietro, ma anche, e fondamentalmente, perché il gregge stesso ha il proprio fiuto per trovare nuove strade.
Non vorrei abbondare in ulteriori dettagli sulla persona del Vescovo, ma semplicemente aggiungere, includendomi in questa affermazione, che siamo un po’ in ritardo in quello che si riferisce alla Conversione Pastorale. E’ opportuno che ci aiutiamo un po’ di più a fare i passi che il Signore vuole per noi in questo “oggi” dell’America Latina e dei Caraibi. E sarebbe bene cominciare da qui.