In pieno anno giubilare dedicato a monseñor Romero – terminerà il 15 agosto prossimo in occasione dei cento anni della nascita – un giudice salvadoregno ha deciso di riaprire la causa sul suo assassinio. La decisione del giudice Ricardo Chicas – questo il nome del magistrato – fa seguito alla fondamentale sentenza della Corte costituzionale di El Salvador dello scorso anno di derogare la legge d’amnistia che impediva di mettere sotto processo i responsabili di crimini e violazioni dei diritti umani commessi durante la sanguinosa guerra civile degli anni 1980-1992. Il giudice che ha riaperto il caso-Romero ha anche annullato l’immunitàdi cui godeva il capitano Álvaro Rafael Saravia, unico processatoper il crimine di Romero beneficiato dall’amnistia e ha chiesto che la Procura si pronunci in proposito. Insomma a 37 anni dall’assassinio dell’oggi beato e prossimamente santo monseñorRomero El Salvador cerca ancora di chiarire le responsabilità della sua morte e illuminare le zone d’ombra che permangono attorno al delitto, agli esecutori e ai mandanti.
La richiesta di riaprire il caso l’aveva formulata la Chiesa salvadoregna nel settembre del 2015.Il vescovo ausiliare della capitale, Gregorio Rosa Chávez, amico in vita e tra i più decisi promotori della causa di canonizzazione dell’arcivescovo assassinato dichiarò nella cattedrale metropolitana dove sono conservate le spoglie di Romero che la Chiesa vuole “perdonare, certamente, ma l’elemento giustizia è condizione per il perdono”.
Interpellato nuovamente lo scorso marzo da Terre d’America Rosa Chávezdisse: «E’ stato monsignor Rivera y Damas, grande amico e primo successore di Romero, a denunciare davanti alla Corte interamericana dei diritti umani che quell’assassinio non è mai stato investigato a fondo da parte del governo. Il governo respinse la denuncia e non si assunse mai una responsabilità esplicita e pubblica. Dopo anni di litigio, nell’ultima sessione a cui ho presenziato con María Julia Hernández (lavorò con Romero e diresse Tutela Legale fino alla sua morte, N.d.R.) il governo, per bocca del suo rappresentante, concluse più o meno in questi termini: siamo riconciliati, la pace è stata firmata, il caso è caduto in prescrizione, c’è amnistia, dunque si archivi. Noi sostenemmo sì la necessità di perdonare, ma con verità e giustizia. Da questo punto di vista il messaggio di Giovanni Paolo II del 1997 “Ricevi il perdono e offri la pace” lo consideriamo un documento chiave per una Chiesa come la nostra che auspica la riconciliazione. Le linee erano due: una parlava di perdono e dimenticanza, l’altra di verità, giustizia e perdono. In America del Sud sono state applicate entrambe; dove è stata seguita la linea perdono-dimenticanza il risultato è stato fallimentare, dove – come in Cile – ci si è mossi in una linea di giustizia e perdono, i risultati sono stati migliori. Personalmente aggiungerei un quarto termine: riconciliazione, come nello schema colombiano».
Rosa Chávez riassunse in questi termini la nuova situazione creata dalla deroga della legge di amnistia. «Ci fu una amnistia che applicò il presidente Cristiani nel 1993 all’insegna di perdono e dimenticanza. Questa amnistia è appena stata derogata. E si è aperto di nuovo uno spazio dov’è possibile investigare. Ci troviamo a questo punto. Ma continua ad essere un debito pendente. La sentenza dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) chiedeva tre cose fondamentali: primo, che il presidente della repubblica riconosca pubblicamente la responsabilità dello stato salvadoregno nell’assassinio di Romero e il presidente Mauricio Funes l’ha fatto, secondo che si rendessero onori pubblici al nome di Romero, e anche questo è stato fatto, per esempio dedicandogli l’aeroporto internazionale di San Salvador, terzo che si insegnasse ai bambini nelle scuole la vera storia di Romero, ma proprio qui ci troviamo ancora nel punto di doverla chiarire».
Nell’intervista a Terre d’America Rosa Chávez parlò del capitano Álvaro Rafael Saravia, indicato come parte del commando che pianificò e condusse a termine l’assassinio.
«Nella Commissione per la Verità chi fece grandi progressi fu un gruppo di avvocati peruviani legati a Mons. Bambarin, fortemente motivati nel loro lavoro. Erano tre, sono venuti a vedermi e mi hanno detto: “abbiamo tutto chiaro, adesso abbiamo bisogno di incrociare informazione”. Io avevo una lettera di una persona implicata in vario modo con gli squadroni della morte e in cui raccontò tutto quello che sapeva, tra cui il modus operandi [sta parlando dell’ex-capitano Rafael Saravia, N.d.A.]. Ho consegnato una copia a questo gruppo di avvocati. Qualche giorno dopo sono venuti a dirmi che tutto quello che avevano appurato era confermato dal documento. La lettera era di una persona che abbiamo aiutato ad uscire dal paese. E’ passato del tempo, finché quest’uomo è ritornato in incognito in Salvador e ha accettato di parlare con gli avvocati peruviani. Nel verbale del dialogo mancava solo un punto: chi sparò. E questo continua senza essere stato chiarito».