Guzman Carriquiry è alle prese con un convegno di portata continentale che si terrà a Bogotá, in Colombia, fra il 27 e il 30 agosto, organizzato congiuntamente dalla Pontificia Commissione per l’America Latina (Cal) e il Consiglio Episcopale Latinoamericano (Celam) in collaborazione con gli Episcopati di Stati Uniti e Canada. Una cosa grossa, che si ripete negli anni di Papa Francesco che ha già registrato un videomessaggio di 30 minuti e passa. All’importante evento prenderanno parte delegazioni rappresentative delle 22 Conferenze episcopali dell’area latino-americana; assicurata anche la presenza di presuli della Curia Romana e di organismi di solidarietà ecclesiale presenti in America Latina attraverso il loro sostegno a molti progetti e iniziative nazionali e diocesane.
Il Congresso, che sarà presieduto dal cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi e presidente della Cal, e dal cardinale Ruben Salazar Gomez, arcivescovo della capitale colombiana, dopo la concelebrazione eucaristica di apertura si concluderà con un gesto significativo: il Rosario continentale per la pace. “Ci saranno più di 180 vescovi di tutti i paesi dell’America Latina” conferma Carriquiry, “ed una ventina almeno di cardinali” che si uniranno ad altri provenienti dal Nord, Stati Uniti e Canada com’era nelle volontà di San Giovanni Paolo II che questi incontri li ha iniziati e Francesco proseguiti. L’ultimo nominato, ricevendo la dirigenza della Conferenza episcopale dell’America Latina a fine maggio, ha già dato il “la” alla riflessione con una nota ironica sui laici: da 50 anni, ha detto il Papa latinoamericano, si va dicendo che “questa è l’ora dei laici, ma sembra che si sia fermato l’orologio…”. Una battuta che per professor Carriquiry non deve affatto essere lasciata passare. “E’ ovvio che i Vescovi riconoscono e apprezzano gli insegnamenti del Concilio vaticano II sulla dignità e responsabilità dei laici come uno dei contenuti fondamentali del rinnovamento. Ed è anche noto che i laici sono presenti ovunque, come co-responsabili, nell’edificazione delle diverse comunità cristiane, in associazioni, movimenti, e in una miriade di servizi. Non c’è dubbio che abbiamo tanti buoni pastori che iniziano il loro ministero “in ginocchio” –come raccomanda frequentemente il Papa-, persone semplici, vicine al popolo, piene di zelo apostolico…
E allora da dove nasce questo giudizio?
Fa impressione che il Papa abbia nuovamente affrontato in maniera così decisa il tema del “clericalismo” in America Latina. Lo aveva già fatto agli inizi del suo pontificato, a Rio de Janeiro, davanti alla dirigenza del CELAM. Adesso lo fa in una lettera molto importante inviata al Cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, alla cui elaborazione ha dedicato molto del suo tempo, anche in mezzo ai suoi innumerevoli impegni. Si badi bene: il Papa non si riferisce al clericalismo residuale dei tempi tardo-tridentini del “pre-concilio”, ma ai segnali che emergono oggi, nella cosiddetta Chiesa “post-conciliare”.
Se non sbaglio l’ha definito come «una delle deformazioni più grandi che l’America Latina deve affrontare».
Il clericalismo s’infiltra là dove i pastori non vivono sufficientemente quella prossimità misericordiosa, evangelizzatrice e solidale con la propria gente che papa Francesco chiede insistentemente con le parole e fa vedere coi gesti. Quando non esprimono la gioia di essere in mezzo al loro popolo, quando non conoscono a fondo l’esperienza viva e concreta di coloro che sono stati affidati loro per mancanza di quella compenetrazione affettiva che nasce dall’amore, quando non sentono l’urgenza a la passione di rispondere col Vangelo alle sofferenze e alle speranze dei loro popoli. Per questo nella lettera alla PCAL il Papa indica nel Santo Popolo di Dio “l’orizzonte a cui a guardare e il punto sorgivo della nostra riflessione (…). Un padre non capisce se stesso senza i suoi figli (…) Un pastore non si concepisce senza un gregge che è chiamato a servire. Il pastore è pastore di un popolo e al popolo lo si può servire soltanto dal di dentro (…)”. Guardare il Santo Popolo di Dio e sentirci membri di esso ci “posiziona” nella vita, salva dalle astrazioni, dalle pure speculazioni teoriche, da interminabili piani pastorali, da chiusure. Di più: “quando, come pastori, ci straniamo dal nostro popolo, ci perdiamo”. Ci perdiamo in chiusure e rifugi clericali – e si potrebbe continuare- lontani dalla nostra gente, senza abbracciare tutti con quell’amore misericordioso che evita discriminazioni preventive, precondizioni morali ed esclusioni; senza toccare la carne dei poveri e le ferite di tanti che soffrono in corpo e anima si scivola fuori dalla Chiesa.
C’è anche un clericalismo dei laici non crede?
E’ il correlato al clericalismo dei pastori, quello che il Papa chiama “tendenza a rendere funzionale il laicato”, trattandolo alla stregua di un “dipendente”. Al punto tale che alcuni laici finiscono per considerare più importante per la loro vita cristiana, per la partecipazione alla missione della Chiesa, il fatto di avere diritto o meno al voto consultivo o deliberativo in tale o talaltro organismo ecclesiastico, o di potere esercitare una particolare funzione pastorale anziché le decisioni importanti che devono prendere ogni giorno nella vita familiare, nel lavoro, nella società, e, perché no, nella politica. I sacerdoti finiscono per considerare i laici più come semplici collaboratori parrocchiali e pastorali, quando, invece, dovrebbero cercare le modalità di educare, valorizzare, accompagnare e appoggiare, assieme a tutta la comunità cristiana, la loro presenza nel mondo, la loro presenza “secolare” alla ricerca della costruzione di forme di vita più umane. Ovviamente qui non si tratta di disprezzare la generosa e altamente positiva co-responsabilità dei laici nell’edificazione delle comunità cristiane bensì di lasciarsi interpellare da quello che papa Benedetto XVI disse nel suo discorso inaugurale ad Aparecida poi ripreso dall’Episcopato latinoamericano nel documento conclusivo (il cui capo redattore fu l’allora Cardinale Jorge Mario Bergoglio): “C’è una notevole assenza nell’ambito politico, comunicativo e universitario di voci e iniziative cattoliche di forte personalità e vocazione che siano coerenti con le loro convinzioni etiche e religiose”.
E’ così? Lei che è latinoamericano, visita spesso i paesi dell’America Latina, riceve rapporti ed è quotidianamente in contatto con la gerarchia di questi paesi, sottoscriverebbe questo giudizio?
Noto che è sorprendente – e inquietante – che in un continente dove l’80% della popolazione è battezzata, dove la tradizione cattolica è così presente nella storia e nella cultura dei popoli, dove la Chiesa cattolica ha avuto un ruolo molto importante nei processi di democratizzazione, la presenza e il contributo dei laici cattolici nella vita pubblica sia stata così poco rilevante negli ultimi decenni del XX secolo e nei primi anni del secolo odierno. Tutti conosciamo testimoni esemplari, conosciamo la professione di fede di tanti “dirigenti” in omaggio alla tradizione dei nostri popoli, ma, dove troviamo correnti vivaci che irradino la novità cristiana nella vita pubblica dell’America Latina? Ci sono state verso la fine del XIX secolo, negli anni 30 e 50 e nell’immediato post-concilio. Ma non dopo! I laici sembrano restare nell’ombra in attesa del pronunciamento dell’episcopato o premendo per averlo, senza essere loro stessi il soggetto che apre il cammino al Vangelo nella vita sociale e politica. A sua volta i pastori moltiplicano le dichiarazioni sulle diverse questioni della vita pubblica dei nostri paesi ma , di fatto, non si appoggiano sulle “risorse” umane e cristiane dei laici, non generano né sostengono “nuove forme di organizzazione e celebrazione della fede(…), della preghiera e della comunione” –come suggerisce il Papa nella sua lettera – per accompagnare e appoggiare chi assume responsabilità nella vita pubblica, prendono distanza da loro per non compromettere la posizione della Chiesa, li ascoltano poco e spesso li considerano degli esecutori di direttive gerarchiche.
Come si fa a superare il clericalismo? E poi c’è veramente una maniera di superarlo? Cinquant’anni di post-Concilio non ci sono riusciti…
Nella lettera indirizzata al cardinale Ouellet il papa fa due affermazioni perentorie. La prima è che il laico è il battezzato, tutti i battezzati, senza laici di serie A o di serie B, senza quell’elitismo di deriva neo-farisaica che porta ad autodefinirsi “laici adulti”, “laici impegnati”, “laici militanti”, sfoggiando tali appellativi in maniera autocelebrativa. La seconda è che parlare di laici, come ho già detto, implica evocare l’orizzonte del Santo Popolo di Dio al quale appartengono, in tutta la sua consistenza teologale e storica di popolo in cammino verso il Regno di Dio, secondo le sue diverse modalità d’inculturazione e secondo i diversi livelli di adesione, appartenenza e partecipazione (come succede in qualsiasi popolo…).
A partire da queste due prospettive inscindibili tra loro la “rivoluzione evangelica” che papa Francesco porta avanti implica e richiede una dinamica di conversione personale per un rinnovato incontro con Gesucristo. Lo dice in maniera solenne all’inizio della esortazione Evangelii Gaudium quando invita “ogni cristiano, in qualsiasi luogo o situazione si trovi, a rinnovare subito il suo incontro personale con Gesucristo o, per lo meno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, e di tentare questo ogni giorno, senza sosta” (n.3). Se non diamo risposta a questo invito restiamo a livello di aneddotica sul pontificato, poco attenti a quello che lo Spirito sta dicendo alla Chiesa e alle Chiese, a ogni battezzato, attraverso la testimonianza di papa Francesco.
Mi viene in mente la Conferenza di Aparecida del 2007, con Benedetto XVI ancora Papa e Bergoglio presidente della commissione che avrebbe dovuto redigere il documento finale…
Infatti il santo Padre ha ripreso proprio l’espressione di quella conferenza parlando di “conversione pastorale”, di “conversione missionaria” della Chiesa, di tutta la comunità cristiana. Ci sono coloro che riducono la “conversione pastorale” a una revisione dei piani pastorali o al rinnovamento delle opere pastorali. Ed è una cosa buona. Se l’evangelizzazione procede per attrazione, attrazione per una bellezza che è irradiazione della verità nella vita, è anche cosa buona che tutta la comunità cristiana s’immerga in un profondo esame di coscienza e rifletta su quanto sia trasparente e irradiante in essa la presenza di Cristo, il miracolo dell’unità, la testimonianza della santità, il suo amore per i poveri e gli emarginati, al di là delle opacità del peccato. Tuttavia “conversione pastorale” evoca innanzitutto la conversione dei Pastori, vale a dire, dei Vescovi e dei loro collaboratori nel ministero pastorale. Questo è fondamentale se si desidera che questa “rivoluzione evangelica” trovi, da una parte, moltiplicatori che la diffondano e si eviti, d’altra parte, che molta gente finisca per manifestare le sue simpatie per papa Bergoglio ma mantenga una distanza critica riguardo alla Chiesa e non la percepisca come il ministero di Dio presente.
C’è una espressione che ricorre negli interventi del Papa a religiosi, clero e gerarchia: Chiesa in uscita…
E’ l’esatto contrario della autoreferenzialità ecclesiastica, dell’autosufficienza, della chiusura e il ripiego impaurito, di qualsiasi rifugio autocompiaciuto, dove si cova il clericalismo. Uscire all’incontro degli altri! E farlo avendo fiducia che nel Vangelo di Cristo c’è la risposta sovrabbondante e corrispondente, che risponde agli aneliti di amore e di verità, di giustizia e felicità che sono connaturali alla persona umana. Lo Spirito Santo ci precede nel cuore delle persone e nella cultura dei popoli. Occorre uscire dai recinti ecclesiastici! Non si deve rimanere ad aspettare i fedeli, mentre -come dice papa Francesco- ci sono 99 pecore perdute e una sola è quella che è rimasta nel recinto. Occorre stare attenti per discernere i segni della presenza di Dio nelle diverse esperienze di fede, speranza e carità. La disattenzione e l’assenza sono segni di clericalismo.
E’ un momento turbolento per l’America Latina, con il Venezuela ai bordi della bancarotta e forse di una rottura istituzionale che potrebbe anche avere uno sbocco violento, con il Brasile che ha destituito il proprio presidente e l’Argentina che sta per processare la Kirchner per corruzione dopo essere stata sconfitta alle urne da un governo di centro-destra…
E’ finita la fase delle “vacche grasse” alimentate dai prezzi alti del petrolio, dei minerali, dei prodotti agricoli e d’allevamento, dalla disponibilità abbondante di capitali esteri, dovuti all’effetto Cina, che ha reso possibile una forte crescita economica sudamericana ad una media di circa il 5% e l’emergere di una classe media popolare, anche se in condizioni di lavoro precarie e informali, grazie a alcune decine di milioni di persone che hanno superato la soglia della povertà. Il divario abissale fra le super-oligarchie e gli esclusi ed emarginati si è comunque mantenuto.
Siamo entrati in un tempo di vacche magre…
E’ così, sono crollati i prezzi nel mercato mondiale, paesi molto importanti, Brasile in primis e Venezuela poi, sono retrocessi a situazioni drammatiche ed esplosive, con le loro gravissime crisi politiche ed economiche strettamente collegate, e trascinano giù, in deflazione e depressione, l’insieme dell’America Latina. Anche se non mancano paesi con governi molto diversi tra loro che continuano ad ottenere performances economiche positive (Paraguay, Bolivia, Perù…). Rimangono aperti gli interrogativi sul futuro di Cuba e le conseguenze a cui giungeranno le “aperture al mondo” (come auspicava san Giovanni Paolo II) che oggi consiste principalmente nell’apertura agli Stati Uniti, e sul processo di pace in Colombia dopo un ciclo di 50 anni di guerra e violenze.
Il pendolo è ripreso ad oscillare…
E purtroppo tanti ripetono giudizi indiscriminati e demolitori, condanne manichee contro “quelli di prima”, senza essere capaci di valorizzare il bene che è emerso nella strada percorsa. Senza politiche di Stato di lunga durata al servizio dei popoli, si succedono alternanze politiche di governi di corto respiro. Oscilliamo tra un centralismo statalista e un neoliberalismo tecnocratico, assumendo le deficienze di uno e dell’altro. Cambiano le élite al governo pero sono sempre presenti e determinanti i poteri forti.
E la corruzione politica.
La corruzione politica è drammaticamente ben presente anche se, trattandosi di un problema endemico, è lecito supporre che venga usato come strumento di battaglia secondo gli interessi e le opportunità politiche del momento. Chi si mostra più sensibile davanti allo spreco dei denari pubblici sono proprio quelle classi emergenti popolari, beneficiate in tempi di “vacche grasse”, che esigono migliori servizi sanitari, trasporto, educazione, amministrazione pubblica e sovvenzioni sociali che adesso sono minacciate, soprattutto pensando al futuro dei propri figli. Ma, al di là del via vai della politica, la cosa peggiore sarebbe che entrassimo, come si può intravedere qua e là, in una nuova fase d’impoverimento e iniquità sociale in seno ai paesi. Sarebbe ancora peggio se le polarizzazioni politiche e sociali divenissero lotte sanguinose dalle conseguenze imprevedibili.
Sembrerebbe che oggi la mediazione della Chiesa sia più che mai importante, e non solo per abbattere muri secolari, ma anche per scongiurare guerre incipienti.
La Chiesa cattolica, immedesimata con le sofferenze e le speranze di nostri popoli, forte della credibilità che continua ad avere come nessun’altra istituzione nei paesi latinoamericani, forte anche dell’amore preferenziale per i poveri di profonde radici evangeliche che papa Francesco testimonia continuamente e quotidianamente, deve discernere profondamente la fase congiunturale che si sta aprendo in America Latina e le gravi implicazioni che ha sulla missione educativa e missionaria, misericordiosa e solidaria della Chiesa stessa. Non è affatto la sua missione quella di essere antagonista o “cappellano” della politica, sostenere, abbattere o sostituire governi. Deve invece, a partire dall’originalità della sua natura, mantenere ben alti gli ideali migliori della nostra storia, contribuire a realizzare un progetto storico per l’America Latina e aiutare a far crescere grandi movimenti popolari e consensi nazionali senza i quali tutto ristagna nella retorica. Nel frattempo il servizio della Chiesa alle nazioni può essere indispensabile per calmare gli animi recalcitranti, promuovere atteggiamenti pubblici di perdono e riconciliazione nei quali si apprezzi la magnanimità umana e le ricerche convergenti di ricostruzione sociale, suscitare il dialogo, promuovere accordi e proporsi anche come mediatrice quando le circostanze lo permettano. Dio fa miracoli anche nella vita della nazioni!