«Bisogna invitare i pastori e i laici affinché leggano e discutano soprattutto i capitoli 4 e 5 di Amoris laetitia. Il capitolo sulla dottrina, il terzo, è molto classico. Ma chiede che tutto l’insegnamento sul matrimonio si rilegga alla luce del kerygma, e quello dobbiamo farlo noi. La stragrande maggioranza del popolo di Dio ha accolto bene il documento». Lo afferma l’arcivescovo Victor Manuel Fernandez, rettore dell’Università cattolica argentina, teologo molto vicino al Papa.
Lei ha fatto parte della commissione incaricata di scrivere il documento finale del Sinodo: il documento papale come ha tenuto conto dei lavori sinodali?
«Il testo di Amoris Laetitia è pieno di citazioni delle relazioni finali dei due Sinodi. Ma bisogna capire il “Sinodo” come un percorso, che include le risposte da tutto il mondo che sono arrivate a Roma, tantissime lettere che ha ricevuto il Papa lungo quei due anni, e soprattutto l´ascolto personale del Papa che recepiva ogni parola dei Padri sinodali. Molte di quelle idee forse non sono andate a finire sulle due relazioni finali, ma per il Papa erano pure importanti. Così il Papa si è creato quel “poliedro” che non si capisce se si prende in considerazione ogni opinione isolata. Comunque, è vero che il Papa ha aggiunto qualcosa di molto personale in Amoris Laetitia. Il suo commento a 1 Corinzi 13, ad esempio, o la sua insistenza così forte sulla crescita dell’amore, che era presente nei due Sinodi ma non con la forza che si trova in Amoris Laetitia».
Quali sono, a suo giudizio, le parti più significative e più importanti di Amoris laetitia? Quali le sue novità?
«Senza alcun dubbio, come lo dice lo stesso documento, i capitoli centrali sono quelli dedicati all’amore, perché, come afferma il sottotitolo, questo è un documento “sull’amore”. Perciò si può dire che il testo più importante è l’inno alla carità di san Paolo. Bisogna invitare i pastori e i laici affinché leggano e discutano soprattutto i capitoli 4 e 5, che il Papa ha scritto con particolare cura. Il capitolo sulla dottrina, il terzo, è molto classico. Ma chiede che tutto l’insegnamento sul matrimonio si rilegga alla luce del kerygma, e quello dobbiamo farlo noi. Poi, in quel capitolo, afferma che la vita sessuale del matrimonio è pure un camino di crescita nella grazia. Questo supera definitivamente ogni dualismo. Un’altra questione da sottolineare è che sulle questioni pastorali si delega ampliamente la riflessione alle Chiese locali a ai vescovi. Così continua ad andare avanti una certa decentralizzazione. Non si dice da Roma: “questa dev’essere la pastorale familiare”. Si dice: “Ogni diocesi troverà i suoi camini pastorali”».
Da molte parti si sente dire che sul discernimento – in riferimento al capitolo ottavo – sarebbero state utili indicazioni più chiare. Può spiegare il significato del percorso proposto da Francesco?
«Bisogna chiarire due cose. La prima: quello che dice il Papa nel capitolo ottavo non si deve ridurre alla questione dei divorziati risposati. È molto importante per aprire nuove porte sia alla teologia morale che alla pastorale, che diventano più misericordiose, più trasformate dal primato della carità e più vicine alla realtà concreta delle persone. Poi, il Papa non ha voluto sviluppare di più la questione della comunione ai divorziati risposati perché voleva che fosse soltanto un piccolo accenno che aprisse una porta pastorale, e non una questione fondamentale. La maggior parte delle pagine di Amoris Laetitia sono dedicate a promuovere la crescita dell’amore, ed è quello il proposito del Papa. Certo che c’è un passo in avanti molto importante dopo Familiaris Consortio. Ma è meglio permettere che i vescovi, in dialogo col Papa, riflettano su questo tema. Per la Chiesa intera i temi principali sono altri. Il tempo metterà le cose al suo posto, e cosi lo capisce il Papa: “il tempo è superiore allo spazio”. Alcuni cambiamenti fanno troppo rumore ma poi tutto si sistema».
A distanza di due mesi dall’uscita dell’esortazione post-sinodale Amoris laetitia come giudica la sua ricezione?
«In alcuni luoghi si sta facendo con molto entusiasmo, generosità e responsabilità. In particolare, molti hanno preso sul serio i capitoli centrali che sono ciò che il Papa ha voluto evidenziare di più. Altri si sono eccessivamente intrattenuti – a favore o contro – sulla questione della comunione ai divorziati risposati. Richiama l’attenzione la reazione di alcuni gruppi cattolici che si rifiutano di applicare il documento, con tutta la ricchezza che contiene, solo perché sono arrabbiati per il capitolo ottavo. È stato cosi pure coi documenti precedenti. Ma grazie a Dio non è l’atteggiamento della stragrande maggioranza del popolo di Dio».
Su quali basi afferma questo?
«Ad esempio, negli ultimi mesi in Argentina si sono sviluppati forti movimenti politico-mediatici mirati a dileggiare Francesco, ma una recente indagine condotta dal quotidiano “Clarín” mostra che il Papa ha il 75% dell’immagine positiva e solo il 4% di immagine negativa. Conferma così quella discreta e silenziosa fedeltà del popolo, malgrado i mormorii e le critiche di alcuni. I frutti di questo dono dello Spirito si vedranno meglio nel corso del tempo, ma non possiamo negare che sono state aperte nuove possibilità per la Chiesa che dovremmo sfruttare molto meglio senza perdere tempo».
L’anno scorso, nel mese di ottobre, lei ha partecipato ad un simposio che ha riunito teologi e studiosi presso “La Civiltà Cattolica”, per riflettere sulla riforma della Chiesa. Quali sono le conclusioni?
«Presto verrà pubblicato un lavoro contenente vari contributi. Partendo da un profondo spirito di comunione con il Papa Francesco, i teologi hanno tentato di accogliere la sua proposta di riforma della Chiesa, il suo invito a pensare in uno stile più sinodale, e pure quello che ci ha chiesto nella Evangelii Gaudium – che non sembra essere stato ascoltato – di dare più competenze alle Conferenze episcopali, tra cui qualche autorità dottrinale. I progressi sono molto lenti, non perché il Papa non li abbia incoraggiati ma perché come teologi e pastori non osiamo reagire con generosa creatività».
Hanno fatto discutere alcune sue affermazioni di un anno fa in un’intervista a un giornale italiano. Perché lei ha detto che il Papa in futuro potrebbe anche non risiedere a Roma?
«In realtà io stavo rispondendo a una domanda sulla Curia romana e sul Vaticano. Intendevo dire piuttosto “fuori dal Vaticano”. Ma voglio sottolineare che il Papa è il pastore universale a partire dalla sua missione come vescovo di una Chiesa locale. Ciò significa che nessuno può essere supremo pastore di tutta la Chiesa, se non è di fatto il pastore di una Chiesa locale. Questa considerazione è fondamentale, e viene teologicamente prima del fatto che la Chiesa locale sia quella di Roma, anche se le due cose non si possono separare. La realtà è che, fin dall’inizio, la Chiesa locale del Papa è l’ultima diocesi retta da san Pietro, cioè quella di Roma. Quale sia la qualificazione teologica della necessità che la diocesi del Papa debba essere quella di Roma, non saprei dirlo. Ma è maglio partire dalla realtà storica e concreta. È proprio a Roma che si trova la tomba della “roccia petrina” che Cristo ha lasciato alla Chiesa, è il luogo del martirio di Pietro e Paolo, e tutto questo ha un senso profondo. Allora, non intendo sminuire in alcun modo il legame che fin dall’inizio della storia cristiana lega Pietro e i suoi successori a Roma.
La città di Roma ha dunque una caratteristica di sacralità?
«È bene precisare che parliamo di Roma specificamente come diocesi, e non come città. Quindi credo che non sarebbe un problema se il Papa risiedesse a Guidonia Montecelio, ad esempio, che appartiene alla diocesi di Roma, pur essendo un altro comune. Ma questa è una speculazione inutile e bizzarra. Quello che intendo porre in evidenza è il nucleo del problema: il Papa dev’essere vescovo, padre e pastore, di una Chiesa locale e, come tale, riceve la missione di pastore supremo della Chiesa intera.
E la Curia vaticana?
«Una cosa è la diocesi di Pietro e un’altra cosa sono le strutture della Curia vaticana, che hanno importanza solo in quanto aiutano il Papa e il collegio dei vescovi. Le strutture della Curia non sono una parte essenziale della sua missione. Sono solamente un aiuto “per l’esercizio” del suo ministero, che può essere strutturato in modi molto diversi nel corso della storia. E nulla toglie che queste strutture possano essere minimali. Un’altra cosa è il collegio dei cardinali, che in un senso molto speciale appartengono alla diocesi di Roma».
È possibile che alcuni uffici della Curia possano essere collocati fuori Roma?
«Credo che sia possibile sostenerlo, ma posso sbagliare. Ad esempio, il Pontificio Consiglio per la Cultura, oppure la Pontificia Accademia della vita, o la Congregazione per le cause dei Santi, potrebbero essere altrove nel mondo. Con il crescente progresso delle comunicazioni ciò non ostacolerebbe l’attività del Papa. Di fatto, ci sono cardinali della Curia romana che viaggiano frequentemente in varie parti del mondo, ed è anche un fatto che ci siano cardinali che assistono il Papa da lontano, senza che sia necessario che abitino nella città di Roma. Questa possibilità potrebbe essere discussa senza difficoltà e forse, in alcuni casi, aiuterebbe a vivere quella sana decentralizzazione che chiede Evangelii Gaudium. D’altra parte, ho saputo che la Congregazione per la dottrina della Fede ha chiesto alla Commissione teologica internazionale un approfondimento sulla sinodalità e le strutture della Chiesa, e certamente quello ci offrirà un chiarimento molto più accurato di quello che posso offrire io».