IL POTERE SECONDO BERGOGLIO. Gli apostoli e la torta da spartire. Natura, funzione e utilità del potere

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Jorge Mario Bergoglio per gran parte della sua vita è stato un uomo di potere: da quando, prima di essere ordinato presbitero, era professore sino ad oggi sul Soglio di Pietro. Come si sa è stato responsabile accademico, parroco, provinciale gesuita, vescovo ausiliare, arcivescovo e cardinale primate. In diverse altre situazioni, seppure transitoriamente, ha esercitato poteri rilevanti: Presidente dell’Episcopato argentino o figura centrale e strategica nella Conferenza degli Episcopati di America Latina nel 2007 ad Aparecida (Brasile). In alcuni momenti, come lui stesso ha riconosciuto, ha esercitato il potere con piglio autoritario, salvo poi fare un esame di coscienza, autocritica e cambiare. Non solo: per le stesse responsabilità che ha coperto e che copre ha avuto e ha rapporti con un gran numero di persone di potere fuori e dentro della Chiesa e per il suo servizio e ministero agisce come una sorta di “calamita” su altri poteri, e potenti del mondo, che sentono il bisogno di incontrarlo in Vaticano o durante i suoi viaggi.

J.M. Bergoglio dunque sa benissimo cosa è il potere e forse da qui scaturisce la sua posizione critica e prudente di fronte a ogni forma di potere. Conosce molto bene i pregi del potere, se esercitato come servizio e donazione, ma conosce anche i tanti e insidiosi vizi che questo potere, nella maggior parte dei casi, tende a chi ha titoli, legittimità e funzioni di governo sugli altri. Nel tentativo di decifrare almeno in parte il “codice Bergoglio” occorre mettere a fuoco questa aspetto della sua personalità e in ciò ci aiuta un gesuita accademico argentino: “Lui non solo conosce il potere. Avendolo esercitato anche in circostanze difficili e drammatiche è molto consapevole della natura, funzione e utilità del potere. Sa benissimo che le società, i popoli e le nazioni, non possono fare a meno del potere che di per sé, se legittimo, è necessario in quanto strumento di governo al servizio del bene comune. Sa anche che il potere si legittima sia nella sua origine sia nel suo esercizio; anzi, soprattutto nel suo esercizio. Lui ha sempre riflettuto molto sui poteri che nella storia dell’uomo sono nati legittimi e poi si sono delegittimati nell’esercizio”. “Una visione di questo tipo – precisa un altro interpellato- ha senso ed è comprensibile solo se alla base la concezione del potere è percepito, sentito e assunto come servizio”.

«La lotta per il potere nella Chiesa — ha sottolineato Papa Francesco commentando il vangelo di Marco (9, 30-37) — non è cosa di questi giorni, eh? È cominciata là, proprio con Gesù»: mentre il Signore parlava della Passione, i discepoli pensavano a discutere su chi di loro fosse più importante, così da meritare «il pezzo più grande» di quella che il Papa ha paragonato a una torta da spartire. Ma nella Chiesa non deve essere così. Il Santo Padre lo ha ribadito citando un altro passo del vangelo di Matteo (20, 25-26) nel quale Gesù spiega ai discepoli quale sia il senso vero del potere: «I capi delle nazioni sottomettono i loro popoli e fanno sentire il loro potere. Ma fra voi non deve essere così. Questa è la chiave: fra noi non deve essere così» ha affermato il vescovo di Roma. Dunque nell’ottica del Vangelo, «la lotta per il potere nella Chiesa non deve esistere. O, se vogliamo, che sia la lotta per il vero potere, cioè quello che lui, con il suo esempio, ci ha insegnato: il potere del servizio. Il vero potere è il servizio. Come ha fatto lui, che è venuto non a farsi servire, ma a servire. E il suo servizio è stato proprio un servizio di croce: lui si è abbassato, fino alla morte, morte di croce, per noi; per servire noi, per salvare noi». (Osservatore Romano, Santa Marta, omelia del 21 maggio 2013).

Ci commenta un amico di Papa Francesco: “Vedete, in queste parole da voi ricordate c’è, non direi Papa Bergoglio, no, c’è la visione cristiana del potere. Ed è questo ciò che conta. Ricordatevi però che Francesco sottolinea un qualcosa in più di grande rilevanza, seppure difficile da capire. Dice: “Per il cristiano andare avanti, progredire, significa abbassarsi. Se noi non impariamo questa regola cristiana, mai potremo capire il vero messaggio cristiano sul potere» (…) Sant’Ignazio, negli Esercizi spirituali, «ci fa chiedere al Signore crocifisso la grazia delle umiliazioni: Signore voglio essere umiliato, per assomigliare meglio a te. Questo è l’amore, è il potere di servizio nella Chiesa. E si servono meglio gli altri per la strada di Gesù». Per J. M. Bergoglio ogni potere, piccolo o grande, è sempre circondato e minacciato da un insidia devastante: la corruzione, che prova a infiltrare ogni cosa, compresa la Chiesa.

Papa Francesco tempo fa, nel gennaio 2015 rientrando da Manila, raccontò un tentativo di corruzione nei suoi confronti quando era arcivescovo di Buenos Aires. Non è un caso che Francesco nella sua allocuzione al V Convegno nazionale della Chiesa italiana abbia detto: “Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a se stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente. Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49). (10 novembre 2015)

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