Colpisce, nello splendido discorso tenuto da Papa Francesco ai vescovi nella Cattedrale di Città del Messico, l’uso continuo dei termini “guardare”, “sguardo”, “volto”. Il verbo “vedere”, in forma attiva e passiva, è il filo rosso di un testo chiave nel magistero pastorale del Pontefice. Tale da illuminare una prospettiva che si era già affacciata in precedenza. Ad esempio nella nota autobiografica riportata nella conversazione con p. Antonio Spadaro, pubblicata prima da “La Civiltà Cattolica” e poi nel volume La mia porta è sempre aperta. Qui, dopo aver ricordate le sue visite a Roma alla Chiesa di San Luigi dei Francesi, il Papa ricorda le sue impressioni di fronte alla Vocazione di san Matteo del Caravaggio: Quel dito di Gesù così…verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo. […] E’ il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: “No, non me! No, questi soldi sono miei!”. Ecco, questo sono io: “un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi” (p. 25).
Lo sguardo di Cristo è qui connesso alla coscienza del peccato che emerge solo in rapporto alla misericordia, all’imbattersi in un volto che ama. Nell’intervista con Andrea Tornielli, Il nome di Dio è misericordia, Francesco, spiegando il motivo per cui aveva scelto a motto del suo episcopato la frase «miserando atque eligendo», afferma che: «A me piace tradurre miserando, con un gerundio che non esiste, “misericordiando”, donandogli misericordia. Dunque “misericordiandolo e scegliendolo”, per descrivere lo sguardo di Gesù che dona misericordia e sceglie, prende con sé» (p. 27). La misericordia è appresa in uno “sguardo”, è “appesa” ad uno sguardo, al volto dell’altro/Altro. Questa prossimità è la condizione trascendentale mediante cui il cristianesimo diviene storico, capace di comunicarsi. Nonostante Francesco non citi usualmente il grande teologo Hans Urs von Balthasar è però innegabile che la sua fenomenologia della percezione corrisponde pienamente, come in Balthasar, al darsi “sensibile” della “forma” (Gestalt) gloriosa del Mistero. Per comprendere la fede occorre calarsi nella dinamica con cui Gesù, il Verbo di Dio, si è manifestato nel mondo. Nel discorso ai rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, Francesco, dopo aver osservato come «Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. E’ il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui», afferma: E guardiamo ancora una volta ai tratti del volto di Gesù e ai suoi gesti. Vediamo Gesù che mangia e beve con i peccatori (Mc, 2,16; Mt 11,19), contempliamolo mentre conversa con la samaritana (Gv 4,7-26); spiamolo mentre incontra di notte Nicodemo (Gv 3,1-21); gustiamo con affetto la scena di Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta (cfr Lc 7, 36-50).
Il Papa adotta qui una prospettiva “filmica” laddove l’introduzione al cristianesimo non è un’operazione archeologica, né meramente storico-erudita. Si tratta, anche nella catechesi, di riandare a Cristo nella sua realtà, vedendoLo operare, camminare per le strade, sanare i malati, confortare gli afflitti, abbracciare i bambini. Il cristianesimo non può prescindere, nella sua percezione e nella sua comunicazione, dall’elemento ottico, né da quello uditivo o da quello tattile. Francesco riprende qui, alla lettera, la modalità “empirica”, l’ “estetica teologica” con cui Giovanni, nella sua prima Lettera, tratta dell’esperienza del Verbo. E’ questa concretezza che spiega la metafora della Chiesa come “ospedale da campo” nell’intervista a P. Spadaro: A me, l’immagine che viene è quella dell’infermiere, dell’infermiera in un ospedale: guarisce le ferite ad una ad una, ma con le sue mani. Dio si coinvolge, si immischia nelle nostre miserie, si avvicina alle nostre piaghe e le guarisce con le sue mani, e per le mani si è fatto uomo. E’ un lavoro di Gesù, personale. Un uomo ha fatto il peccato, un uomo viene a guarirlo. Vicinanza. Dio non ci salva soltanto per un decreto, una legge; ci salva con tenerezza, ci salva con carezze, ci salva con la sua vita, per noi (p. 76).
Questa prospettiva, che vede la sua giustificazione filosofica nel primato della realtà sull’idea costantemente ripetuto da Bergoglio, ha trovato nel discorso ai vescovi del Messico una sua esemplificazione peculiare. Qui lo sguardo da cui tutto proviene è quello della Madonna di Guadalupe, il cuore della fede del popolo messicano.
Potrebbe il Successore di Pietro, chiamato dal lontano sud latinoamericano, fare a meno di posare lo sguardo sulla Vergine “Morenita”? […] So che guardando gli occhi della Vergine raggiungo lo sguardo della sua gente che, in Lei, ha imparato a manifestarsi. Per questo, aggiunge Francesco, anche il Papa da tempo nutriva il desiderio di vederla. Più ancora, vorrei io stesso essere raggiunto dal suo sguardo materno. Ho riflettuto molto sul mistero di questo sguardo e vi prego, accogliete ciò che sgorga dal mio cuore di Pastore in questo momento. Anzitutto, la Vergine Morenita ci insegna che l’unica forza capace di conquistare il cuore degli uomini è la tenerezza di Dio. Ciò che incanta e attrae, ciò che piega e vince, ciò che apre e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti o la durezza della legge, bensì la debolezza onnipotente dell’amore divino, che è la forza irresistibile della sua dolcezza e la promessa irreversibile della sua misericordia.
Il cristianesimo si comunica per una attrattiva. Nella Evangelii gaudium, dopo aver osservato come «la predicazione morale cristiana non è un’etica stoica, è più che un’ascesi, non è una mera filosofia pratica né un catalogo di peccati ed errori. Il Vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e ci salva», il Papa scrive che: «Tutte le virtù sono al servizio di questa risposta di amore. Se tale invito non risplende con forza ed attrattiva, l’edificio morale della Chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro peggior pericolo. Poiché allora non sarà propriamente il Vangelo ciò che si annuncia, ma alcuni accenti dottrinali o morali che procedono da determinate opzioni ideologiche» (EG, & 39). La vita nuova del cristiano non è il risultato delle tavole della legge ma della grazia di Colui che primerea, che precede, sostiene, attrae. «Naturalmente, - afferma nella Cattedrale di Città del Messico - per tutto questo è necessario uno sguardo capace di riflettere la tenerezza di Dio. Siate pertanto Vescovi di sguardo limpido, di anima trasparente, di volto luminoso».
La fede è qui una Presenza nello sguardo. E precisamente in questo mondo, Dio vi chiede di avere uno sguardo che sappia intercettare la domanda che grida nel cuore della vostra gente, l’unica che possiede nel proprio calendario una “festa del grido”. A quel grido bisogna rispondere che Dio esiste ed è vicino mediante Gesù. Che solo Dio è la realtà sulla quale si può costruire, perché “Dio è la realtà fondante, non un Dio solo pensato o ipotetico, ma il Dio dal volto umano”. Nei vostri sguardi, il Popolo messicano ha il diritto di trovare le tracce di quelli che “hanno visto il Signore” (cfr Gv 20,25), di quelli che sono stati con Dio. Questo è l’essenziale.
L’essenziale, oggi come ieri, è lo sguardo di coloro che “hanno visto il Signore”. Il cristianesimo non si comunica mediante tecniche o sfoggio di potenza ma nella semplicità di uomini che hanno toccato con mano l’operare di Dio nella storia. Se il nostro sguardo non testimonia di aver visto Gesù, allora le parole che ricordiamo di Lui risultano soltanto delle figure retoriche vuote. Forse esprimono la nostalgia di quelli che non possono dimenticare il Signore, ma comunque sono solo il balbettare di orfani accanto al sepolcro. Parole alla fine incapaci di impedire che il mondo resti abbandonato e ridotto alla propria potenza disperata.
Donde l’invito ai vescovi a farsi prossimi al popolo, alla gente umile, ai giovani. «Penso alla necessità di offrire un grembo materno ai giovani. Che i vostri sguardi siano capaci di incrociarsi con i loro sguardi, di amarli e di cogliere ciò che essi cercano… Che i vostri sguardi, riposti sempre e solamente in Cristo, siano capaci di contribuire all’unità del vostro popolo; di favorire la riconciliazione delle sue differenze e l’integrazione delle sue diversità». E’ sorprendente, qui, la prospettiva con cui il Papa intuisce il punto essenziale, il punto di Archimede da cui partire per rigenerare, unire, aprire alla speranza. Non si tratta di una dottrina, di una posizione culturale, anzitutto. A Firenze aveva detto: «Non voglio qui disegnare in astratto un “nuovo umanesimo”, una certa idea di uomo, ma presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che è quello dei “sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5)». L’umanità cristiana rifulge non come una nuova teoria ma come un essere nuovo che si documenta, ostensivamente, nella sfera del “sentire”, corporeo e spirituale. Per questo oltre il pelagianesimo, la pretesa di fare a meno della grazia, l’altro grande pericolo costantemente richiamato dal Papa è lo gnosticismo: cioè la pretesa di fare a meno della “carne” di Cristo, il ridurre la fede ad una mera dottrina astratta. La fede senza la vita si trasforma in un’ideologia, in un fondamentalismo presuntuoso, in un puritanesimo elitario separato dalla storia. Per questo a Città del Messico il Papa afferma: è necessario per i nostri Pastori superare la tentazione della distanza e del clericalismo, della freddezza e dell’indifferenza, del comportamento trionfale e dell’autoreferenzialità. Guadalupe ci insegna che Dio è familiare nel suo volto, che la prossimità e la condiscendenza possono fare più della forza. Come insegna la bella tradizione guadalupana, la “Morenita” custodisce gli sguardi di coloro che la contemplano, riflette il volto di coloro che la incontrano. Occorre imparare che c’è qualcosa di irripetibile in ciascuno di coloro che ci guardano alla ricerca di Dio. Tocca a noi non renderci impermeabili a tali sguardi. Custodire in noi ognuno di loro, conservandoli nel cuore, proteggendoli. Solo una Chiesa capace di proteggere il volto degli uomini che vanno a bussare alla sua porta è capace di parlare loro di Dio. Se non decifriamo le loro sofferenze, se non ci accorgiamo dei loro bisogni, nulla potremo offrire. La ricchezza che abbiamo scorre solamente quando incontriamo la pochezza di coloro che vanno elemosinando, e proprio tale incontro si realizza nel nostro cuore di Pastori.
Negli occhi della Madonna di Guadalupe sono presenti, anche fisicamente, coloro che Ella ha “visto” nel momento in cui la veste colma di fiori dell’indio Juan Diego è caduta a terra. La Guadalupana è guardata dal popolo fedele perché Ella, per prima, lo ha guardato. Allo stesso modo i Pastori non devono attendere lo sguardo dei semplici, in segno di ossequio e di rispetto, ma devono guardare per primi, abbracciare nello sguardo. Nella intervista di P. Spadaro, Francesco, non abituato a parlare alla gente, confessa: «Io riesco a guardare le singole persone, una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti. Non sono abituato alle masse» (p. 14). L’incontro cristiano è possibile solo come rapporto personale, come relazione io-tu. Si può guardare “tutti” solo perché si guarda “qualcuno”. Al fondo perché, prima, si è stati “guardati” e non semplicemente “visti” da qualcuno. A Città del Messico è lo sguardo della Madonna di Guadalupe che consente di guardarLa, di guardare in Lei il volto di tutti coloro che, uniti nello sguardo, divengono un popolo. Solo guardando la “Morenita”, il Messico ha di sé una visione completa. Pertanto vi invito a comprendere che la missione che la Chiesa vi affida richiede questo sguardo che abbracci la totalità. E questo non si può realizzare isolatamente, bensì solo in comunione. La Guadalupana è cinta di una cintura che annuncia la sua fecondità. E’ la Vergine che porta in grembo il Figlio atteso dagli uomini. E’ la Madre che sta generando l’umanità del nuovo mondo nascente. E’ la Sposa che prefigura la maternità feconda della Chiesa di Cristo. Voi avete la missione di cingere l’intera Nazione messicana con la fecondità di Dio. Nessun pezzo di questa cinta può essere disprezzato.