Nell’Anno della Misericordia potrebbe arrivare anche la giustizia terrena per Ellacuria e compagni massacrati nel campus dell’Università cattolica di San Salvador 27 anni fa. La battaglia per la verità storica e quella per la giustizia terrena sull’identificazione dei responsabili intellettuali e materiali dell’assassinio dei gesuiti si arricchisce di un nuovo capitolo. La difesa dei militari sospettati dell’eccidio ha presentato in questi giorni un atto di ricusazione del giudice spagnolo della causa che dal 2008 tra alterne vicende è stata avviata dalla magistratura iberica in ragione del fatto che cinque delle sei vittime, otto con la domestica e la figlia, hanno nazionalità spagnola. Sul fronte opposto le associazioni salvadoregne che accusano i militari premono perché il processo venga finalmente celebrato e i presunti autori del crimine tutt’ora nel paese nativo vengano estradati verso il paese europeo.
L’argomento principe dei primi, la difesa dei militari, è stato formalizzato in una istanza depositata presso il Consejo General del Poder Judicial di Madrid; nella sostanza l’impugnazione punta a screditare il giudice del processo Eloy Velasco “per considerarlo parziale nelle azioni intraprese” sino a questo momento. La ragione: “essere legato alla Compagnia di Gesù”. Uno strano argomento, a ben vedere, che nell’esposto viene formulato senza reticenze in questi termini: “Il giudice è completamente di parte; abbiamo apportato documentazione che accredita che il giudice Eloy Velasco sta investigando dei fatti che sono avvenuti in una università gesuita, e lui dà lezioni in una università gesuita” riassume un quotidiano di El Salvador che ha preso visione del contenuto dell’atto giudiziario. Nella strategia della difesa dei militari salvadoregni per impedire l’estradizione c’è l’inabilitazione del giudice madrileno che ha disposto il processo per una sorta di conflitto di interessi, “avendo questi come denuncianti dei militari due entità legate alla Compagnia di Gesù”, com’è il caso dell’Università Centroamericana (UCA) all’interno della quale è avvenuto in massacro.
Sul fronte opposto, quello dei promotori del processo, la spagnola “Associazione Pro diritti umani” ha chiesto a metà dicembre all’Audiencia Nacional, il massimo tribunale iberico, che riproponga alla Corte suprema di El Salvador gli ordini di cattura contro i 18 militari già formulati dal giudice Eloy Velasco nell’agosto del 2011 con relativa richiesta di estradizione. Allora l’istanza del giudice spagnolo venne trasmessa all’Interpol, che emise ordini di cattura internazionale mai eseguiti dalle autorità salvadoregne che si limitarono a localizzare i militari e trasferirli in una caserma dell’ex-Guardia Nazionale. Con accento critico l’ultimo editoriale della rivista della UCA, dove i gesuiti insegnavano (uno di loro, padre Ignacio Ellacuría, era il rettore), fa notare come nel caso del presidente della Federazione calcio del Salvador l’ordine di estradizione emesso negli Stati Uniti per corruzione sia stato eseguito con prontezza, preceduto da un ordine di cattura. “Al contrario della richiesta di estradizione proveniente dalla Spagna – scrive la rivista – che è stata interpretata come una semplice richiesta di localizzare i soggetti che vi venivano menzionati”.
Ma questa volta le cose potrebbero andare diversamente. L’Associazione Pro diritti umani della Spagna è convinta che le condizioni politiche e giuridiche di El Salvador siano nel frattempo cambiate e i militari accusati possano essere veramente detenuti e inviati in Spagna. La convinzione si appoggia sulla nuova composizione della Corte di giustizia di El Salvador che ha cambiato sensibilmente il profilo. Cinque nuovi magistrati – sui 15 in esercizio – sono infatti entrati a farne parte a settembre e il 2 ottobre hanno votato a favore di una nuova interpretazione degli ordini di cattura. A differenza del 2011 hanno sostenuto che quando esiste una “notificazione rossa” dell’Interpol su una persona residente in territorio salvadoregno, essa deve essere localizzata e catturata per poi essere messa a disposizione della nazione che la ricerca. Anche per le autorità dell’UCA il momento è favorevole. Per mezzo del direttore dell’Istituto per i diritti umani, Luis Monterrosa, hanno fatto sapere di essere disposte a perdonare, “ma dobbiamo sapere chi dovremo perdonare di fronte al paese. Deve esserci accesso alla verità”, ha precisato Monterrosa.