Se si guarda la cartina geaografica dell’America Centrale, la frontiera che corre tra il Nicaragia e il Costa Rica è un vitino di vespa. Una canzone del luogo inneggia a Dio che nel profondo dei tempi solleva la terra dalle acque e con mano forte la stringe proprio nel mezzo, fin quando un sottile peduncolo sgocciolante separa il nord dal sud, l’Atlantico dal Pacifico. Perché Dio l’abbia fatto lui solo lo sa. Forse per onorare veramente quel che lo stemma del canale di Panama reca scritto con solennità: “Pro mundi beneficio”. Ma se Dio non avesse fatto così, se l’istmo fosse rimasto sommerso, Cristoforo Colombo avrebbe trovato il passaggio verso il Catay, i predecessori degli Incas non si sarebbero potuti stabilire in Perù, la croce non sarebbe stata piantata a Santo Domingo ed i popoli moderni non si sarebbero mescolati su questo fazzoletto di terra che è l’America Centrale più che altrove. L’impresa panamense di realizzare il canale ha congelato il sogno del Nicaragua per molti anni, ma non l’ha dissolto. Più di trenta diverse rotte sono state studiate, ingegneri spagnoli, inglesi, olandesi, tedeschi, francesi, danesi, statunitensi e messicani hanno simulato opere e infrastrutture, hanno fatto calcoli, dedicato sforzi e denaro a rilevamenti e ricerche come a nessun altro progetto nella storia contemporanea. A metà degli anni ’90 è poi sorta in Nicaragua la prima iniziativa non straniera per realizzare la grande via d’acqua. Un gruppo di entusiasti imprenditori ha costituto l’apposita Fondazione per il Canale e con pazienza e perseveranza è riuscita a convincere il governo ad iniziare rilevamenti affidabili di fattibilità.
Nel 2004 si fece sul serio. Il presidente conservatore Enrique Bolaños fece mettere a punto gli studi e cercò finanziatori. I cinesi si fecero avanti; proposero di allargare il corso naturale del fiume San Juan e di aprire un solco nella terra per collegare le acque dei due mari. Dovevano passarvi navi da trasporto fino a 250.000 tonnellate, 4 volte più capinti di quelle che potevano transitare per il canale di Panama. 25 milioni di dollari il costo stimato, 25 volte il bilancio annuale del Nicaragua, dieci anni il tempo stimato per l’esecuzione dei lavori. Un’impresa epica, come quella che realizzarono i panamegni agli inizi del secolo scorso, ma con tecnologie enormemente più moderne. Non se ne fece nulla. Troppi problemi, troppi conflitti con il vicino Costa Rica, troppe resistenze ambiantaliste, poco chiari i risvolti finanziari e il ritorno per il Nicaragua. Nel 2009 fu la volta del presidente russo Dimitry Medvedev a suggerire che la Russia sarebbe stata interessata alla via transoceanica. Ma non si è andati molto avanti, e la costruzione del terzo corridoio di chiuse nel Canale di Panama ha raffreddato anche questa volta gli entusiasmi.
Del Canale in Nicaragua se ne torna a parlare in questi tempi. Il 3 luglio del 2012 l’Assemblea Nazionale ha approvato con un’ampia maggioranza la legge che autorizza la costruzione. Sulla carta il canale adesso c’è.