Per capire ancora meglio la portata storica, radicale e profonda del cambiamento della dottrina della Chiesa Cattolica in materia di pena di morte, cambiamento reso pubblico a sorpresa mercoledì con la firma del Pontefice e sancito solennemente nella nuova stesura dell’articolo 2267 del Catechismo della Chiesa, si deve ricordare che questa pena era legge in Vaticano fino a 17 anni fa seppure non veniva applicata. «Non è sufficiente – spiegò Francesco nel novembre scorso in occasione del 25.mo della Promulgazione della Catechismo della Chiesa Cattolica – trovare un linguaggio nuovo per dire la fede di sempre; è necessario e urgente che, dinanzi alle nuove sfide e prospettive che si aprono per l’umanità, la Chiesa possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce. È quel tesoro di “cose antiche e nuove” di cui parlava Gesù, quando invitava i suoi discepoli a insegnare il nuovo da lui portato senza tralasciare l’antico». Poi, il Papa ha voluto sottolineare: «Solo una visione parziale può pensare al “deposito della fede” come qualcosa di statico. La Parola di Dio non può essere conservata in naftalina come se si trattasse di una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti! No. La Parola di Dio è una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli uomini non possono fermare». Perciò «non si può conservare la dottrina senza farla progredire né la si può legare a una lettura rigida e immutabile, senza umiliare l’azione dello Spirito Santo. “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri” (Eb 1,1), “non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio” (Dei Verbum, 8). Questa voce siamo chiamati a fare nostra con un atteggiamento di “religioso ascolto”, per permettere alla nostra esistenza ecclesiale di progredire con lo stesso entusiasmo degli inizi, verso i nuovi orizzonti che il Signore intende farci raggiungere».
Nella sua importante allocuzione il Papa aveva citato innanzitutto la celebre frase di san Giovanni XXIII, il quale, aprendo il Concilio Vaticano II l’11 ottobre 1962, aveva detto: «È necessario che la Chiesa non si discosti dal sacro patrimonio delle verità ricevute dai padri; ma al tempo stesso deve guardare anche al presente, alle nuove condizioni e forme di vita che hanno aperto nuove strade all’apostolato cattolico». «Il nostro dovere – continuava il Pontefice bergamasco – non è soltanto custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera che la nostra età esige, proseguendo così il cammino che la Chiesa compie da quasi venti secoli». Il Pontefice ha voluto infine essere ancora più preciso sulla materia ricordando la «la felice formula» di san Vincenzo da Lérins: “annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”», cioè anche il dogma della religione cristiana, «progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età». Una formula, ha detto Francesco, che «appartiene alla peculiare condizione della verità rivelata nel suo essere trasmessa dalla Chiesa, e non significa affatto un cambiamento di dottrina».
La pena di morte nella Città del Vaticano è stata legale dal 1929 al 1969, prevista in caso di tentato omicidio del papa. Venne formalmente rimossa dalla Legge fondamentale solo il 12 febbraio 2001, su iniziativa di papa Giovanni Paolo II. In fatto di condanne a morte in nome di Dio, la Chiesa Cattolica, in particolare lo Stato Pontificio, ha avuto una tradizione consistente se si pensa che, tra impiccagioni e taglio della testa, lo Stato del Papa, tra il 1796 e il 1870, era arrivato al record di 527 esecuzioni, un vero primato per Mastro Titta, “il boia di Roma” (1).
Iniziate col cappio e lo squartamento di Nicola Gentilucci in quel di Foligno e finite con la decapitazione di tale Agatino Bellomo, condannato per omicidio e ghigliottinato a Palestrina il 9 luglio 1870, due mesi prima della conquista di Roma da parte delle truppe sabaude. All’atto della firma dei Patti Lateranensi e della costituzione della Città del Vaticano, la Santa Sede tornò a dotarsi di un territorio proprio e questo la costrinse ad introdurre delle norme necessariamente di potere temporale. Il codice penale del Regno d’Italia, che aveva reintrodotto la pena di morte nel 1926, estese la pena capitale per il reato di tentato assassinio del Papa sul proprio territorio equiparandolo a quello di tentato assassinio del Re: « Considerando la persona del Supremo Pontefice sacra e inviolabile, l’Italia dichiara che qualunque attentato alla Sua persona o qualunque incitamento a commettere tale attentato sia punibile con le medesime pene previste per tutti i simili attentati o incitamenti condotti contro la persona del Re. Tutte le offese o gli insulti commessi all’interno del territorio italiano contro la persona del Supremo Pontefice, causati dal significato di discorsi, atti o scritti, saranno punibili allo stesso modo che come offese e insulti contro la persona del Re» (Patti Lateranensi.).
La Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano, emanata nel 1929 da papa Pio XI dopo la firma dei Patti Lateranensi ed in sostanziale concordanza con quanto presente nel codice penale del Regno d’Italia, prevede la pena di morte anche nell’ordinamento della Città del Vaticano e lo introdusse nello specifico anche nel tentativo di uccisione del Santo Padre. Non ci furono tentativi di assassinio del Papa fintanto che lo statuto vaticano previde la pena capitale. Papa Paolo VI rimosse la pena di morte dagli statuti vaticani, abrogandola per qualsiasi reato, annunciando la modifica nell’agosto 1969. Tuttavia, il cambiamento divenne di pubblico dominio solo nel gennaio 1971, quando alcuni giornalisti accusarono Paolo VI di ipocrisia per le sue critiche alle esecuzioni capitali in Spagna e Unione Sovietica.
La pena di morte venne rimossa completamente dalla Legge fondamentale con motu proprio il 12 febbraio 2001, su decisione di Giovanni Paolo II.
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(1) Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta (Senigallia, 6 marzo 1779 – Roma, 18 giugno 1869[1]), noto anche in romanesco come “er boja de Roma”, fu un celebre esecutore di sentenze capitali dello Stato Pontificio.
La sua carriera di incaricato delle esecuzioni delle condanne a morte durò ben 68 anni ed iniziò all’età di 17 anni, il 22 marzo 1796: fino al 1864 raggiunse la quota di 514 (sul proprio taccuino, Bugatti annotò 516 nomi di giustiziati ma dal conto vengono sottratti due condannati, uno perché fucilato e l’altro perché impiccato e squartato dall’aiutante) [1], per una media dunque di 7 condanne annue. Egli operò anche sotto il dominio francese, in cui compì 55 esecuzioni del totale.
Le sue prestazioni sono difatti tutte annotate in un elenco che arriva fino al 17 agosto 1864, quando venne sostituito da Vincenzo Balducci e papa Pio IX gli concesse la pensione, con un vitalizio mensile di 30 scudi.
Mastro Titta eseguiva sentenze in tutto il territorio pontificio.