È già santo, ma gli manca la giustizia terrena. E per i suoi assassini senza nome e senza volto non potrà esserci quel perdono che la Chiesa ha promesso quando verranno identificati. Intanto il cielo del Salvador continua a lacrimare copiosamente da due settimane. Gli effetti dell’uragano Michael, dicono qui, che però non hanno impedito il pellegrinaggio sino alla cattedrale e alla tomba di Romero, dove i salvadoregni si sono concentrati per seguire quello che il Papa faceva in piazza San Pietro con il loro illustre concittadino. Qualche giorno prima, sempre sotto la pioggia, c’è stata un’altra marcia, terminata in un luogo diverso da una piazza sacra, il Palazzo di Giustizia di San Salvador. Un pellegrinaggio devoto per accompagnare la santificazione di un martire il primo, una marcia con striscioni per reclamare una maggior celerità nel processo contro gli autori materiali e intellettuali dell’assassinio di monsignor Romero che da 38 anni sono nell’ombra.
Il momento per spingere verso la verità giudiziaria è ben scelto, per la canonizzazione dell’illustre vittima e per la riapertura delle indagini dopo che una sentenza del 12 maggio 2017 le ha finalmente riattivate mettendole nelle mani del giudice istruttore penale Rigoberto Chicas, quello che i salvadoregni conoscono bene per aver mandato in carcere per corruzione Antonio Saca, il loro presidente tra gli anni 2004 e il 2009. “È una persona molto seria e siamo convinti che il caso farà passi in avanti” commenta Ovidio Mauricio Gonzalez, di Tutela Legale, la storica istituzione fondata nel 1977 da monsignor Romero con il nome di Soccorso giuridico, poi trasformata in quello che è oggi dal suo amico e successore Arturo Rivera y Damas.
Non è facile credere che dopo quasi quattro decadi nessuno degli autori che hanno preso parte a questo crimine sia stato portato davanti ad un tribunale, e più ancora che non si sia celebrato un processo con indiziati attendibili. Ma è proprio così. Romero è anch’egli vittima della pace che voleva per il suo tormentato paese, perché gli accordi che hanno disarmato la guerriglia in Salvador nel 1992 hanno anche portato le parti in conflitto a non scavare più di tanto nelle atrocità commesse, per lasciarsele alle spalle in pro della futura concordia che sembrava finalmente di poter riuscire a conquistare. La legge di amnistia decretata dal presidente di Arena Alfredo Cristiani nel marzo 1993 ha così sepolto centinaia di processi già avviati nei tribunali del paese e stoppato la valanga che sarebbe arrivata con la nuova democrazia. Basti pensare che solo la Commissione per la Verità nella sua breve stagione si occupò di duemila casi, su 80 mila vittime seminate dalla guerra e 10 mila desaparecidos lasciati in eredità alla fine del conflitto. Poi, finalmente, la legge d’amnistia è stata dichiarata incostituzionale e derogata il 13 luglio 2016 e i processi hanno avuto via libera, anche quelli che si riferivano a casi già amnistiati. Ovidio Mauricio Gonzalez, che tra le altre cose ha certificato il trasferimento dei resti di Romero dalla vecchia tomba alla nuova con tanto di giuramento canonico l’11 marzo 2015, si dichiara soddisfatto per la riapertura e il nuovo titolare della causa. Nel suo ufficio oberato di fascicoli ci mostra uno ad uno gli 11 volumi di duecento e passa pagine ciascuno da poco consegnati nelle mani del nuovo giudice istruttore. Contengono ricostruzioni, deposizioni, testimonianze, articoli di giornali, verbali, mappe, nomi anche, e identikit, come quello del presunto assassino, alto, magro, dal volto spigoloso con barbetta e baffi descritto così da altri partecipanti del commando della morte. Una base indiziaria di grande valore che conferma o integra altri lavori come il rapporto della Commissione per la verità, che raccolse elementi praticamente conclusivi, o quello della Commissione interamericana dei diritti umani che ne ha seguito le tracce ed anche il gran volume di materiale riunito per il processo civile condotto in California, a Fresno, contro Álvaro Saravia, un nome su cui torneremo, che lo condannò a un risarcimento di 10 milioni di dollari e portò il giudice a scrivere nella sentenza che esisteva veramente uno squadrone della morte ed era comandato dal maggiore Roberto D’Abuisson. Alla domanda se il materiale riunito dalla Commissione per la verità sarebbe stato sufficiente per portare a giudizio e condannare il principale sospettato dell’assassinio, D’Aubuisson appunto, un assessore di peso della commissione, l’americano Douglas Cassel, dottore in giurisprudenza ad Harvard e oggi professore di diritto internazionale presso l’Università di Notre Dame, rispose un sì senza tentennamenti: “Se fosse stato possibile portarlo davanti a un tribunale, penso che il processo sarebbe terminato con una condanna. Nessuno dei commissari e nessuno dei tre consulenti avemmo il minimo dubbio in questo caso, perché intervistammo testimoni chiave, che sapevano cosa’era successo”.
Il quotidiano argentino La Nación – e anche su questo ritorneremo – pubblicò in data 14 marzo 2018 un’intervista alla sorella minore di D’Abuisson, Marisa de Martínez, con il titolo “Mi hermano, el asesino de monseñor Oscar Romero”. La donna, all’epoca assistente sociale e molto attiva nelle comunità di base del Salvador, riferisce la visita nel sanatorio dove il fratello era ricoverato il giorno prima della morte. In quell’occasione, l’ultima da vivo, gli disse: «”Devi morire in pace, ti prego, affidati a Romero, chiedigli perdono con la parte più profonda del tuo cuore”. Lui aprì gli occhi per un momento, la avvicinò a sé fino a che non fu faccia a faccia e, incapace di parlare per la malattia, cominciò a piangere”».
Marisa D’Abuisson de Martínez oggi è in piazza San Pietro. Prima di partire per Roma ha rilasciato un’intervista a El Faro che il quotidiano ha pubblicato sabato 13 ottobre, vigilia della canonizzazione di monsignor Romero. Alla domanda di Roberto Valencia, firma di punta delle inchieste del giornale, se nutra dei dubbi sulla partecipazione del fratello all’assassinio la sorella rinnova questa risposta: «Purtroppo … per le cose che Roberto stava dicendo su Monsignore, per quel taccuino che gli trovarono [la cosiddetta “Agenda Saravia”] con quei dati, penso che si arruolò in quell’organizzazione, diciamo, creata per vedere come potevano mettere da parte definitivamente Romero. E, naturalmente, la sua penultima omelia può avere spinto anche coloro che ancora avevano dei dubbi”.
“Secondo le risultanze della Commissione per la Verità l’organigramma delle responsabilità dell’assassinio di Romero portava ad uno squadrone della morte organizzato da D’Abuisson e finanziato dal così chiamato gruppo di Miami, delle famiglie facoltose emigrate negli Stati Uniti” aggiunge l’avvocato Mauricio Gonzalez: “Il capitano Álvaro Saravia era l’amministratore dei fondi, l’economo per così dire, dell’autista si sa chi fosse, altri nomi sono conosciuti, anche se non di tutti si può precisare il ruolo avuto nell’operazione, non c’è certezza solo su chi abbia premuto il grilletto, sospetti sì”.
Da Roma dove si trova per la canonizzazione, il cardinale salvadoregno Gregorio Rosa Chávez è tornato a parlare di una “connessione argentina”, almeno per ciò che si riferisce all’addestramento del tiratore che ha sparato a Romero nel pomeriggio del 24 marzo 1980. Rosa Chávez ha indicato in “un sacerdote argentino” la propria fonte. Questi gli parlò di una “una scuola per addestrare i tiratori scelti” vicino alla città di residenza e di aver saputo che “chi ha ucciso Romero è venuto da lì”. Il cardinale ha raccontato a Roma che prima dell’omicidio, il nunzio apostolico in Argentina ha ricevuto un rappresentante dell’ambasciata americana che gli ha rivelato: “Romero è in pericolo, per favore ditegli che – forse – la prossima settimana sarà assassinato”. Allora il segretario dell’ambasciata vaticana a Buenos Aires chiamò il nunzio in Costa Rica, Lajos Kada, e lui, a sua volta, chiamò l’arcivescovo”. Rosa Chávez ha completato il suo racconto romano, alla vigilia della canonizzazione, confermando che anche nel diario che Romero era solito tenere si trova il riscontro alla pista argentina: “L’arcivescovo ha scritto nel suo diario: il nunzio mi ha chiamato e mi ha detto che forse la settimana prossima sarò ucciso. E immediatamente ha offerto la sua vita”. Poi Rosa Chávez ha proseguito: «Quando sono stato amministratore apostolico dopo la morte di (l’arcivescovo Arturo) Rivera e Damas, ho scritto a questo nunzio e gli ho chiesto su questo punto: “È vero, ho avvertito Romero” mi ha risposto. Quindi abbiamo dati concreti sulla pista argentina. Anche se il nome del cecchino ancora non lo sappiamo».
La pista argentina non è nuova neppure per l’avvocato Ovidio Mauricio Gonzalez, che ci parla di documenti declassificati nel paese sudamericano che fanno riferimento all’assassinio di monsignor Romero. “Del resto”, osserva, “non bisogna dimenticare che i regimi militari dell’epoca erano connessi tra di loro per far fronte a quella che chiamavano minaccia comunista continentale”.
Al reclamo perché questa volta si proceda con decisione all’accertamento della verità storica si è aggiunto in questi giorni anche un suggerimento preciso, messo nelle mani del nuovo magistrato per le indagini. Se n’è fatto portavoce Wilfredo Medrano, anch’egli di Tutela Legale, nonché rappresentante delle vittime del Mozote, uno dei peggiori massacri della storia dell’America Latina. Medrano ha spiegato che la petizione presentata al nuovo giudice istruttore del caso Romero alla fine della manifestazione davanti al Palazzo di Giustizia contiene anche la richiesta di emettere un’allerta rossa dell’Interpol “perché venga localizzato e deportato il militare Álvaro Saravia”.
Álvaro Saravia è un nome che ricorre in pressoché tutti i rapporti che sono stati redatti sino ad oggi sull’assassinio di monsignor Romero. “Venne condannato civilmente negli Stati Uniti a pagare 10 milioni di dollari di indennizzo ai famigliari, si dette alla fuga e oggi risiede in Honduras in un luogo sconosciuto” riassume l’avvocato Mauricio Gonzalez. Nell’agenda che venne sequestrata in una residenza di campagna dov’era riunito un gruppo di prominenti uomini di destra figurano pagamenti effettuati a vari attori di quella che viene denominata Operazione Pina, che potrebbe essere il nome in codice dell’operativo che si è concluso con l’assassinio di monsignor Romero. “Dall’agenda risulta che Saravia avrebbe chiesto due veicoli, uno per il franco tiratore e il conduttore, ed un secondo, per chi ha supervisionato l’azione da fuori” chiarisce Mauricio Gonzalez, che ci mostra la fotocopia della pagina dell’agenda con le annotazioni dei pagamenti effettuati ai membri del commando che il 24 marzo 1980 prese parte all’assassinio. Gregorio Rosa Chavez, non ancora cardinale, nel maggio del 2015, l’anno della beatificazione di Romero, ci raccontò della “lettera di una persona che abbiamo aiutato ad uscire dal paese. È passato del tempo, finché quest’uomo è ritornato in incognito in Salvador e ha accettato di parlare con un gruppo gli avvocati peruviani che ha lavorato sul caso dell’assassinio di monsignore. Nel verbale del dialogo mancava solo un punto: chi sparò. E questo continua senza essere stato chiarito”. Il profugo rientrato in incognito era proprio l’ex-capitano Álvaro Saravia. “Un giorno mi ha telefonato e mi ha detto di voler pulire la coscienza, che stava scrivendo un libro su Romero e aveva bisogno di vedermi” ha proseguito Rosa Chávez nell’intervista del 2015 a Terre d’America. “Non sapevo se credergli. Gli ho chiesto una prova. Mi ha mandato un emissario con una lettera firmata da lui. Poi è successo qualcosa di inaspettato, un giornalista lo intercettò. E a lui ha raccontato tutto”.
Il giornalista è Carlos Dada, fondatore e direttore del quotidiano on-line di El Salvador El Faro e il “tutto” lo si può leggere nell’intervista uscita con il titolo “Así matamos a monseñor Romero” il 22 marzo 2010. Nell’intervista Saravia dichiara di non aver partecipato alla pianificazione dell’assassinio, di non conoscere il cecchino, ma di averlo visto “entrare nell’auto”, di avere la barba, di avergli consegnato “personalmente mille colones che D’Abuisson aveva chiesto in prestito a Eduardo Lemus O´byrne”. D’Abuisson un paio di anni dopo l’assassinio di Romero fondò il partito Arena (Alianza Republicana Nacionalista) e ne divenne il massimo leader. Fu anche presidente dell’Assemblea costituente del 1983 e un membro di spicco della Lega mondiale anticomunista. Morì nel 1992 di cancro alla gola all’età di 47 anni, dopo aver portato il partito alla presidenza di El Salvador e poco prima della firma degli Accordi di pace che misero fine alla guerra civile in El Salvador.
Tra sospettati già morti, suicidi o suicidati, testimoni spariti, depistaggi vari adesso l’indagine sull’assassinio dell’uomo che Papa Francesco ha fatto santo può riprendere il cammino verso la verità. Perché la Chiesa – come ha ripetuto anche in questi giorni il cardinale Rosa Chavez – “vuole perdonare, ma l’elemento giustizia è condizione per il perdono”.
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