METHOL FERRÉ: C’è un pensiero che risale al momento generativo dell’America Latina in quanto soggetto storico autocosciente, e a cui abbiamo già accennato parlando delle principali polemiche teologiche: è la grande discussione sull’evangelizzazione degli indigeni che si è svolta nel corso della prima metà del XVI secolo. Fu un dibattito aspro, di grande intensità, che coinvolse le migliori menti dell’epoca. I teologi che vi intervennero furono quasi tutti spagnoli, ma la ricaduta della controversia sul Nuovo Mondo fu decisiva; a giusto titolo può essere annoverata tra le riflessioni fondanti la Chiesa latinoamericana, che hanno fissato il corso e stabilito la direzione futura del cattolicesimo in queste terre.
La discussione fu così accanita e prolungata che dal XVI secolo trapassò nel secolo seguente; grazie ad essa gli indios delle terre scoperte e conquistate vennero alfine considerati liberi vassalli della Corona spagnola nel territorio del Nuovo Mondo. Che poi nella pratica tale principio venisse contraddetto in maggior o minor misura in un luogo delle Indie o nell’altro, che i missionari dovessero denunciare gli abusi di conquistadores, che i coloni facessero il bello e cattivo tempo approfittando della lontananza dalla madrepatria, questo non inficia il fatto che abbia ispirato una legislazione indigena molto avanzata sul piano dei diritti umani.
Il dibattito a cui mi riferisco fu un momento privilegiato, propulsivo, del processo di gestazione dei diritti umani in America Latina, che confluirà nella formazione del pensiero giuridico europeo. Le cosiddette leggi delle Indie saranno espressione della seconda scolastica rinascimentale e barocca che va da Vitoria a Suàrez e che comprende tanto l’inizio della globalizzazione mondiale con il diritto delle genti, quanto la risposta del Concilio di Trento alla sfida della riforma protestante.
Un onesto illuminista contemporaneo come Jürgen Habermas, lo riconosce proprio discutendone con Ratzinger. In un momento del dialogo che i due intellettuali hanno tenuto a Monaco all’inizio del 2004, Habermas parla del liberalismo politico e dei fondamenti normativi dello stato democratico osservando che «la storia della teologia cristiana nel Medio evo, specialmente la tarda scolastica spagnola, si inquadra certamente nella genealogia dei diritti umani». Ed effettivamente è così; nella scolastica di Vitoria prende forma il primo diritto dei popoli di nuova scoperta. Ratzinger gli risponde a sua volta parlando della gestazione dell’idea di diritto naturale, collocandola nel momento in cui il mondo europeo-cristiano deborda le proprie frontiere e si lancia alla scoperta dell’America. «In quel momento – disse – si è entrati in contatto con popoli estranei alla trama della fede e del diritto cristiani, che sino ad allora era stata l’origine e il modello della legge per tutti. Non c’era nulla in comune con questi popoli sul terreno giuridico». «Ma ciò significa forse – si chiese Ratzinger -che erano carenti di leggi, come alcuni sostennero, o piuttosto si doveva postulare l’esistenza di un diritto che, situato al di sopra di tutti i sistemi giuridici, vincolasse e guidasse gli esseri umani quando entravano in contatto con culture differenti? Davanti a questa situazione – sostenne Ratzinger nella discussione – Francisco de Vitoria dette il nome a un’idea che già stava fluttuando nell’ambiente: quella del “jus gentium” (letteralmente il diritto dei popoli), dove la parola “gentes” si associa, soprattutto, all’idea di pagani, di non cristiani. Si tratta di una concezione del diritto come qualcosa di previo alla concezione cristiana dello stesso, che deve regolare il corretto rapporto tra tutti i popoli».
Habermas, che rappresenta la tradizione più alta dell’illuminismo nel mondo contemporaneo, riconosce l’importanza del diritto naturale nella definizione dei diritti umani e nella gestazione della democrazia e quindi legittima una possibile concordia con la tradizione cristiana.
Ci furono diversi altri momenti di dibattito nel corso della storia moderna dell’America Latina, più nel segno di un’assimilazione di acquisizioni e tappe del pensiero proprio delle Chiese europee, ma pur sempre un’assunzione operata dall’interno dello spazio culturale latinoamericano. Quindi venne l’epoca dell’anticlericalismo del secolo XIX, e subito dopo la benefica influenza di Maritain nella vita intellettuale latinoamericana, soprattutto a partire da “Umanesimo integrale” del 1936, che implicò una polemica intensa con settori integristi e conservatori latinoamericani. I cattolici dell’America Latina presero atto della nuova situazione, riconobbero le virtù dello stato liberale che si era affermato ovunque e cominciarono a porre la questione della libertà religiosa in termini finalmente nuovi e maturi, non più reattivi bensì tendenzialmente assuntivi.
Maritain e le democrazie cristiane che a lui si ispirarono stabilirono le condizioni perché si comprendesse e si assumesse, anche in America Latina, la Dichiarazione sulla libertà religiosa fatta nel Vaticano II. Da questo punto di vista il Concilio può essere considerato il risultato di una terza scolastica, che coinvolge pensatori come Przywara, Maritain, Rahner, Balthasar, Lonergan e altri non di origine tomista come Blondel, Guardini, Guitton, e lo stesso Ratzinger. Il dibattito Ratzinger-Habermas mostra l’avanzamento del dialogo e le possibilità di incontro del meglio del pensiero cattolico e del miglior pensiero laico-illuminista.
Nella visione di questi due esponenti lo stato liberale democratico diviene un ambito di vincoli, di legittimazioni, di riconoscimenti, di garanzie per tutti. Habermas può ben dire che «nelle società pluraliste dotate di una costituzione liberale, il concetto di tolleranza forza i credenti a comprendere, nel loro rapporto con i non credenti o credenti di altre religioni, che debbono fare i conti, ragionevolmente, con il disaccordo persistente di costoro; ma d’altro canto, nella cornice di una cultura politica liberale si forzano anche i non credenti ad assumere questa stessa possibilità nel loro rapporto con i credenti». Argomenti a cui Ratzinger può rispondere, citando Kurt Hubner, che «occorre liberarsi dell’idea enormemente falsa che la fede non abbia nulla da dire agli uomini di oggi, perché contraddice il loro concetto umanista di ragione, di illuminismo e di libertà». Al contrario Ratzinger parla di «rapporto correlativo tra ragione e fede, ragione e religione», chiamate «a depurarsi e redimersi reciprocamente», bisognose come sono una dell’altra.
La convergenza dialogica tra questi due esponenti di rilievo, raggiunta e dichiarata adesso, all’inizio di questo nuovo secolo, è possibile solo grazie al Concilio Vaticano II.
Un inciso a partire da quello che ha detto di Maritain e della polemica con l’integralismo. Lei vede dell’integralismo in America Latina?
Si è già detto che il pensiero latinoamericano è stato lungamente tributario e dipendente dall’Europa, tanto nell’ordine secolare come nell’ordine religioso. Quanto più un intellettuale era colto, più era subordinato a logiche interpretative esterne, anche per ciò che si riferiva a fenomeni latinoamericani, come l’integralismo, appunto.
Perché chiama integralismo la subordinazione?
No, la subordinazione non è sinonimo di integralismo; ma fatalmente, se in Europa si diffondevano correnti integraliste, qua succedeva lo stesso, nel senso che le categorie di moderno e antimoderno, per esempio, venivano usate per interpretare la realtà anche in questi territori lontani. L’antimodernismo latinoamericano guardava alla cristianità europea come ad un modello eterno di cristianesimo, spingendo i cattolici, di conseguenza, verso rivendicazioni volte alla restaurazione di una cristianità in via di trasformazione e crisi. Ci furono degli autori latinoamericani che teorizzarono la perpetuità delle forme catto europee, contro l’idea che fossero storicamente contingenti.
I cattolici integralisti si proponevano di difendere l’indipendenza della Chiesa dallo stato – che era effettivamente minacciata e compressa – e con essa finivano col difendere anche delle forme di cristianità obsolete. Gli anticlericali, a loro volta, difendevano uno stato liberale onnipotente che ereditava la pretesa di sottomettere la Chiesa al modo dell’assolutismo monarchico. Molta nostra storia di fine ottocento, inizi del novecento è punteggiata dallo scontro di questi due integralismi che si alimentavano reciprocamente in altre latitudini.
Oggi la questione è diversa: non necessariamente i fenomeni ecclesiali che hanno l’epicentro in un luogo geografico, si ripetono alla periferia negli stessi termini. La periferia è più autocosciente di essere periferia, più critica.
Mi pare che questo ragionamento obblighi a rimescolare dei concetti che in un tempo non remoto si usavano molto; mi riferisco a categorie come “progressista” e “conservatore”. Sembravano concetti precisi, dal potere definitorio esaustivo. Che impressione le fanno, oggi, questi stessi concetti?
«Progressisti contro conservatori» ha una generalità tale che non serve a molto come categoria definitoria, salvo che la si specifichi, che la si faccia operare con modalità storiche reali.
E in ambito ecclesiale? Le sembra che servano a chiarire, a comprendere? Possono avere un valore esplicativo, una qualche attualità ancora oggi?
Molto scarsa. Negli anni del Concilio Vaticano II e in quelli successivi designavano dei modi di affrontare la realtà che accentuavano elementi precedenti al Concilio, in un caso, o posteriori, in un altro. I conservatori frenavano, i progressisti esageravano e acceleravano le novità. Perché le due categorie che segnala possano mantenere una qualche validità, vanno ricostituite e applicate ad altro. Non so, al modo di evangelizzare per esempio.
Le caratteristiche nuove della missione, come volontà di presenza negli ambienti, come attenzione alle università, alla città, saranno appoggiate da taluni e contrastate da altri, che hanno nostalgia di forme precedenti. Insomma: è in ordine ai contenuti che il binomio progressista-conservatore può ricoprire una qualche utilità indicativa.
Oggi trovo che i supposti progressismi ostentano un’enfasi che dipende molto dalle interpretazioni suggerite dal potere che esercita la maggior egemonia. Vedo anche in ciò la decomposizione ideologica della sinistra di cui si è già parlato.
Queste categorie hanno un valore esplicativo scarso, lei dice. Ossia, più che invalidarle, oggi andrebbero ricostituite?
E riferite, perché possano mantenere un certo valore, al grado di comprensione della missione della Chiesa nelle circostanze storiche dell’America Latina di cui stiamo discutendo.
Considera la riflessione sulla liberazione il primo apporto specificamente latinoamericano?
La tematica della liberazione rimbalza nelle diverse direzioni geografiche in qualche modo a partire dalla guerra mondiale in Europa contro il nazifascismo. Appartiene al linguaggio proprio della resistenza francese. Poi, della parola, se ne appropriò quel gigantesco processo di decolonizzazione che seguì la seconda Guerra mondiale, passò in Indocina alle lotte anti-francesi e anti-americane, e proseguì in Africa, designando le lotte per l’indipendenza delle colonie olandesi, francesi, inglesi e portoghesi.
Ricordo che nel 1955, durante l’assemblea in cui venne a configurarsi l’odierno CELAM, furono tenute diverse conferenze ai vescovi partecipanti; una s’intitolava “Eucaristia e liberazione”. Quello stesso anno apparve una originale opera del gesuita francese de Finance intitolata “Existence et liberté”. Interi capitoli erano dedicati ai processi di emancipazione, nel tentativo di elaborare una vera e propria filosofia della liberazione. Nella mia evoluzione intellettuale questo pensiero ha avuto molta importanza e non ho mai mancato di visitare padre de Finance nel corso dei viaggi a Roma.
Sta parlando di una riflessione teologica che prosegue nel Concilio Vaticano II?
In realtà lo sfiora appena; l’esiguità e la modestia della partecipazione latinoamericana non ha permesso che vi avesse un ruolo più centrale.
Giovanni XXIII sollevò la questione dei poveri all’inizio del Concilio. Ricordo ancora quella sua frase stentorea: «Davanti ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta com’è e vuole essere: la Chiesa di tutti, e soprattutto dei poveri». C’è chi propose – come il cardinal Lercaro – che quello dei poveri diventasse il filo conduttore del Concilio. La proposta non passò, ma provocò e ottenne forti echi. In Paul Gauthier, per esempio, che in Palestina scrisse un libro, “Gesù, il carpentiere di Nazareth”, che venne pubblicato durante la prima sessione del Concilio. Le sue riflessioni ricevettero un’accoglienza molto favorevole da parte della delegazione dei vescovi latinoamericani, guidata dal brasiliano Dom Helder Camara e dal cileno Francisco Larraín, che in varie occasioni si riunirono tra di loro e con il padre Gauthier.
Quest’ultimo terrà ai padri conciliari di lingua spagnola varie conferenze che verranno poi raccolte in volume con il titolo «La pauvreté dans le monde». Il libro verrà pubblicato alla fine del Concilio, nel 1965, e rimbalzerà con forza in America Latina. Lì si anticipano temi fondamentali che si svilupperanno negli anni a venire, compresa la teologia della liberazione nelle diverse linee che ha poi seguito questo pensiero.
Se ho ben capito, questa riflessione sui poveri e la liberazione muove i primi passi poco prima del Concilio, tocca il Vaticano II, ritorna in America Latina con più forza.
É interessante ripercorrere il cammino che compie. Montini, che con il cardinal Suenens ebbe voce in capitolo nel Concilio allorché si trattò di discutere la logica con cui andava strutturato, una volta divenuto Paolo VI avvertì la necessità di integrare quel grande documento conciliare che è la “Gaudium et spes”. Mi riferisco alla redazione della “Populorum progressio”, nel 1966, con la quale – già Papa – reintroduce il tema della povertà, del terzo mondo, dei paesi sottosviluppati e in via di sviluppo nella riflessione ecclesiale.
Quindi annovera Paolo VI come un punto forte lungo quella linea che lei chiama “tradizione teologica latinoamericana”.
É colui che conduce per mano la Chiesa latinoamericana nell’assimilazione del Concilio. Con la “Populorum progressio” Paolo VI apre il Concilio all’America Latina.
Nel discorso inaugurale della Conferenza di Medellín, Paolo VI richiamerà vari testi prodotti in America Latina; li cita dettagliatamente nella sua prolusione ponendoli a fianco della sua stessa enciclica, quasi a voler dare loro un analogo valore. Sono testi dell’episcopato boliviano, di quello brasiliano, cileno e messicano di cui il Papa raccomanda lo studio e la lettura assieme alla “Populorum progressio”. Questi testi sono tutti centrati sul tema della povertà e della liberazione.
In questa occasione, parlando a tutta la Chiesa latinoamericana riunita in Colombia, il Papa indica e conferma lo «sforzo onesto inteso a promuovere il rinnovamento e la promozione dei poveri e di quanti vivono in condizione di inferiorità umana e sociale». Senza ricorrere alla violenza rivoluzionaria. Lo dirà con queste parole indimenticabili: «Né l’odio né la violenza sono lo sforzo della nostra carità».
Questo appello è costato molto al Papa e molto alla Chiesa dell’America Latina, perché ci fu una moltitudine di giovani cattolici che presero la strada della guerriglia. Ancora mi addolora pensare a tanti ragazzi che ho conosciuto, peruviani, messicani, cileni, uruguayani, argentini, che sono morti oppure hanno avuto le vite rovinate. Fu una testimonianza veramente eroica quella di Paolo VI, che – è giusto ripeterlo – fu colui che avvicinò il Concilio all’America Latina riprendendo con convinzione quegli accenti sulla povertà e la liberazione propri della riflessione della Chiesa latinoamericana e nel Vaticano II appena accennati.
Paolo VI giudicò importante, nel quadro della “Gaudium et spes”, ampliare la questione sociale. Poi, negli anni ’70, l’“Evangelii Nuntiandi” completerà l’assimilazione dell’insieme Concilio. Questa costituzione apostolica ebbe il ruolo di unificare intimamente, nella Conferenza che succedette a Medellín, quella di Puebla, i due testi base del Vaticano II: “Lumen Gentium” e “Gaudium et spes”. In qualche modo l’“Evangelii Nuntiandi” fu una sintesi riassuntiva e semplice che contribuì alla diffusione del Concilio tra di noi.
Dopo di allora la scelta preferenziale per i poveri verrà fatta propria da tutta la Chiesa dell’America Latina.
Ad un certo punto di questi dialoghi lei ha fatto questa affermazione: «A me pare che sia finalmente possibile legare in forma intima l’evangelizzazione del nucleo universitario della società moderna con l’opzione preferenziale per i poveri…».
Cioè non in modo estrinseco, prendendo gli elementi principali di una cultura che si genera al di fuori di un principio cristiano totalizzante e sovrapponendoli ipso facto ad una condizione di arretratezza, oppure – ma il risultato è ugualmente insoddisfacente – elevando l’arretratezza così com’è a principio di cultura. Negli anni settanta – lo abbiamo visto – è stato un po’ così.
Chiesa-università-poveri devono essere posti su una linea di continuità. In considerazione del fatto che il lavoro, anche manuale, è sempre più “pensiero”. L’idea cristiana del lavoro porta ad intervenire sulla realtà così com’è modificandola alla luce dell’immagine ideale che deriva dall’essere compagni della creazione. E questa è una questione di consapevolezza, cioè di cultura, dunque di educazione.
«La Chiesa latinoamericana – ha sostenuto – più di qualsiasi altro soggetto, ha la possibilità di riprendere questo legame in termini nuovi». Cosa vuol dire “in termini nuovi”?
Con la coscienza del momento storico che l’America Latina sta vivendo. A mio modo di vedere nei prossimi vent’anni si gioca la possibilità storica di superare l’attuale condizione di arretratezza del continente; e questa possibilità è in buona parte legata al processo d’ integrazione, se esso si realizza oppure no nelle sue esigenze di base. Per superare l’arretratezza l’orizzonte, le energie, devono essere unificati.
Da: Alberto Methol Ferré-Alver Metalli, Il Papa e il Filosofo, Cantagalli, Siena 2013. Edizione precedente: L’America Latina del XXI secolo, Torino, Marietti, 2006