Il Nicaragua è sul bordo dell’abisso, in un punto in cui è possibile sia raggiungere un accordo nazionale per ristabilire la pace, sia rendere impossibile tale accordo e lasciare la guerra come l’unico mezzo per risolvere il conflitto. Questa, e non altra, è la questione che si gioca nel dialogo appena iniziato, una questione che – forse – alcuni non hanno del tutto chiara e altri – noi crediamo che siano una piccola minoranza – sì, ma con la speranza che il dialogo fallisca e si vada alla guerra. Sul finire del primo giorno del dialogo nazionale abbiamo sentito voci in questa seconda direzione, voci esaltate che dicevano di non tornare al tavolo e di rompere tutto, dimostrando con quell’atteggiamento un’estrema irresponsabilità e uno scarso amore per quel Nicaragua che pretendono di difendere.
Nessuno distrugge ciò che ama, nessuno, almeno, sano di mente. Generiamo e ci prendiamo cura dei nostri figli preservandoli dal pericolo e tutto desideriamo per loro meno che vederli attanagliati in spirali di violenza che distruggono la loro vita e il loro futuro. Amare è costruire, creare ambienti per essere felici, noi e i nostri cari, felici nella misura in cui possiamo esserlo in questo mondo diseguale e travagliato. È per questo che è difficile comprendere che si parli di amore alla patria e allo stesso tempo si scommetta, da posizioni estreme, sul conflitto, sull’intolleranza, sulla rovina economica e la distruzione.
Il tavolo si chiama di “Dialogo nazionale”, ma, in realtà, è un forum di negoziazione con la Chiesa cattolica come mediatrice. È un punto che deve essere ribadito. Il dialogo, secondo il dizionario della lingua, è una “conversazione tra due o più persone che esprimono alternativamente le loro idee o sentimenti”. Negoziare è “trattare questioni pubbliche o private, cercando il miglior risultato”. Al dialogo nazionale non si è andati a conversare, ma a negoziare una via d’uscita dalla crisi.
Bene, “negoziare suppone cedere”, come scrisse il Gruppo di Contadora (un’alleanza di paesi dell’America Latina che si propose di promuovere la pace in America Centrale, soprattutto in Guatemala, Nicaragua ed El Salvador, N.d.R.) nella lettera con cui accompagnò l’ultima bozza del Documento per la pace e la cooperazione in America centrale, nel 1986. La Dichiarazione di Manila sulla soluzione pacifica delle controversie, per parte sua, sottolinea che per poter sviluppare un negoziato efficace le parti devono agire “in buona fede e con spirito di cooperazione”, in modo che sia possibile “raggiungere un accordo rapido ed equo delle loro differenze”.
Ecco di cosa si tratta. Per raggiungere un accordo rapido ed equo per il bene del paese, di tutti e di ciascuno dei suoi abitanti. Raggiungere degli accordi implica, per chi vuole raggiungerli, abbandonare richieste estreme, delegittimazioni e insulti. Implica capire che un accordo è un punto di equilibrio tra gli interessi di una parte e gli interessi dell’altra, non il prevalere dei punti di vista degli uni sugli altri. Questo non sarebbe un negoziato, ma una imposizione. Pretendere tutto dall’altro in cambio di niente è negare ogni possibilità di soluzione pacifica. È spingere, senza dichiararlo, allo scontro totale.
È a questo punto dove il mediatore deve svolgere il suo ruolo di mediazione. Mediare: “interporsi tra due o più contendenti, cercando di riconciliarli e unirli in amicizia”, definisce il dizionario della lingua. Il mediatore, quindi, ha come prima missione quella di avvicinare le parti senza schierarsi per nessuna di esse. Deve inoltre delimitare la portata e l’oggetto della controversia poiché identificare i punti di disaccordo è un passo preliminare essenziale per cercare un accordo e rendere possibile la risoluzione. Non è di nessun aiuto costruire scenari dove ci sono solo buoni e cattivi, eroi e prepotenti. Questo è vero in un film di Hollywood, non in un forum in cui si decide il futuro di un paese. Tutti sono liberi di mantenere odi, fobie e amori, ma questo forum non è il posto per risolvere risse, è un luogo per trovare soluzioni alla crisi terminale del Nicaragua. Crisi la cui unica alternativa è la pace, perché la guerra non è un’alternativa. È un suicidio.
Il Nicaragua ha un’economia estremamente fragile. La Francia può sopportare un mese di scioperi (ce ne sono stati), ma il suo livello di ricchezza le consente di assorbire il danno. Il Nicaragua non può permetterselo. Le riserve internazionali del paese sono pari al budget annuale del Real Madrid, di Barcellona F. C. e del Manchester United. Questo ci dà un’idea della nostra penuria. Ci saranno persone a cui questo non interessa. Credono al “quanto peggio, tanto meglio”, la distruzione per la distruzione. Di solito sono persone con il portafogli da qualche altra parte, perché le crisi le pagano sempre i poveri. I ricchi no: hanno i loro soldi fuori dal paese. Se la spirale distruttiva non si ferma non ci saranno soldi per pensioni, ospedali, scuole. Non ci sarà niente. Sarà il nulla. Un nulla pieno di sangue. Paesi come il Nicaragua non hanno margini. Sopravvivono o muoiono.
*Professore di Diritto internazionale e relazioni internazionali dell’Università autonoma di Madrid. Membro e direttore dell’Accademia di geografia e storia del Nicaragua. Collabora al quotidiano El Mundo di Madrid ed è editorialista di El Nuevo Diario de Nicaragua