Cos’è la parrocchia per Bergoglio? Che immagine ha di questo nucleo tradizionale con cui si declina la presenza del cattolicesimo nel territorio di una nazione, una città o un paese di periferia? Qual è lo scopo, o gli scopi, che una parrocchia deve perseguire secondo l’attuale Papa? E dove il contenuto di questi interrogativi mostra ai suoi occhi una tendenziale forma realizzativa?
Dopo aver ripercorso nel primo articolo i riferimenti che Bergoglio dedica alla parrocchia negli anni da arcivescovo di Buenos Aires e in quelli da pontefice, ed esserci addentrati nel secondo articolo nella parrocchia “villera” con le sue due colonne portanti: la sacramentalità e il lavoro di promozione umana di base che vi si svolge, ci soffermiamo adesso sulla sua fisionomia caratteristica: una realtà che ha il volto dei migranti, che tende a dilatarsi sul territorio catalizzando in chiave missionaria tutte le realtà ecclesiali esistenti.
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Le parrocchie delle villas miserias di Buenos Aires frequentate da Bergoglio negli anni da vescovo ausiliare prima, da arcivescovo poi, hanno in comune il fatto di suddividersi in breve tempo in unità territoriali più piccole. Una sorta di mitosi che rigenera in altri punti della superficie processi analoghi a quelli impiantati nel luogo originario della primigenia comunità. Si capisce la genesi della proposizione del documento finale di Aparecida di conio bergogliano quando raccomanda di “cercare la presenza della Chiesa, attraverso nuove parrocchie e cappelle, comunità cristiane e centri pastorali, nelle nuove concentrazioni umane che crescono rapidamente nelle periferie urbane delle grandi città per effetto delle migrazioni interne e delle situazioni di esclusione”[i].
In soli tre anni la parrocchia San Giovanni Bosco della località di León Suarez a 30 chilometri circa da Buenos Aires, sul cui territorio sorgono quattro villas miserias, è passata da tre cappelle a undici. Tutte dedicate ai santi della devozione popolare dei luoghi di provenienza di chi vi si è stabilito in momenti diversi, la Vergine di Itatí il cui santuario sorge nella provincia di Corrientes, la Madonna di Cochabamba originaria della Bolivia, passando per il meno ortodosso Gaucho Antonio Gill o il poco noto Francesco Solano di origini spagnole. Nella villa 21 di Barracas dal 1997 ad oggi la chiesa madre, Nuestra Señora de Caacupé, si è suddivisa in 13 cappelle mentre nella villa 31 cresciuta attorno al grande snodo degli autobus di Buenos Aires che fa da terminale al trasporto di tutta l’Argentina la parrocchia Cristo Obrero ha generato altre 4 cappelle: Nuestra Señora del Rosario, Virgen de Guadalupe, Virgen de Caacupé, Nuestra Señora de Lujan. Prolifica anche la villa Bajo Flores, in cui dall’arrivo di padre Gustavo Carrara, alle due cappelle già presenti —quella che funge da sede parrocchiale e quella dedicata alla Madonna di Itatí— se ne sono aggiunte altre cinque: la Virgen de Copacabana del barrio charrúa, la cappella di Maria Auxiliadora del vicino club San Lorenzo, quelle di Juan Bautista, di San Francisco e di Santa Clara e infine la cappella dedicata a Sant’ Antonio. A queste vanno aggiunte circa 50 “ermitas”, delle piccole nicchie alla Madonna, solitamente costruite su iniziative degli abitanti.
La ragione di questa germinazione è da rintracciare nella conformazione stessa delle villas miserias che tendono ad occupare spazi poco urbanizzati e ancora precari della città. Il territorio di una villa d’emergenza è generalmente contrassegnato da irregolarità urbane costituite da linee ferroviarie attive o in disuso, cavalcavia o fiumiciattoli che attraversano gli insediamenti o anche autostrade cittadine, raccordi o circonvallazioni che dissezionano il territorio e rendono difficile quando non impossibile la mobilità da un settore all’altro. Camminare cento metri nel cuore di una villa è spesso un percorso ad ostacoli tutt’altro che agevole.
Gli spostamenti interni da un punto all’altro di questi insediamenti urbani ad alta densità di popolazione è scoraggiata, quando anche fosse possibile, da ragioni di sicurezza. L’illuminazione è scarsa e la vigilanza inesistente nelle parti più interne. La mobilità è ulteriormente complicata da strade di terra a volte impraticabili con la pioggia e comunque intransitabili da veicoli. Anche per questo la chiesa della villa “si sposta” dove la gente vive e si fraziona in cappelle, e le cappelle diventano col tempo il centro motore di molte attività che ripetono quelle della chiesa principale.
É così che garage, corridoi che separano gruppi di case tra loro, i cosiddetti passillos, capannoni e depositi di ogni genere, da luoghi spesso isolati si trasformano in veri e propri centri di attività liturgiche e sociali. Un semplice censimento nelle principali villas della capitale permettere di redigere un lungo elenco di strutture ed opere sorte tra le pieghe recondite della villa, dalle mense comunitarie ai doposcuola, dai centri professionali alle case per anziani, dai club sportivi a quelli di lettura e formazione biblica, dai centri diurni di recupero agli Hogar de Cristo, dalle Caritas ai depositi di alimenti, passando per radio e stampa con base nelle villas.
SEMINARIO VILLERO. Fino ad un vero e proprio seminario per le vocazioni che nascono nel cuore di tali agglomerati. Com’è il caso della casa vocazionale San Juan Bosco iniziata nella parrocchia Cristo Obrero di villa 31. “Un progetto dei curas de la villa, che abbiamo proposto a Bergoglio e che lui ha subito approvato” racconta il sacerdote Guillermo Torres che lo descrive come “un luogo dove i giovani della villa possano cominciare un cammino vocazionale senza perdere le loro radici”. La casa vocazionale che porta il nome del santo torinese la inaugurò Bergoglio nel 2011. “Gli sottoponemmo il progetto evidenziandogli l’esigenza di tener presente anche in questo caso, davanti a possibili vocazioni, la cultura della villa e lui aderì con grande entusiasmo”. Nessuna intenzione, dunque, di voler creare un corpo separato dal clero diocesano, nessuna velleità di dare forma ad un “clero villero” “C’era bisogno di una porta d’entrata al seminario diocesano” la chiama Torres “ed è questo lo spirito della casa vocazionale che abbiamo iniziato”[ii]. Le porte della casa vocazionale San Juan Bosco sono state attraversate da due giovani nel 2011, uno nel 2012, tre nel 2013, due nel 2014 e altrettanti nel 2016. Il progetto è rallentato negli ultimi due anni, in cui non ci sono stati ingressi. Nella casa si impartisce un corso introduttivo al seminario di Buenos Aires. Ha una durata di un anno (ma può estendersi secondo le necessità del seminarista, per esempio se deve ancora finire la scuola). Al termine del corso, il percorso formativo continua nel seminario maggiore di Devoto, a Buenos Aires. Nonostante la battuta d’arresto degli ultimi due anni, il sistema funziona: in 2019 sarà ordinato sacerdote uno dei primi due giovani che fecero il loro ingresso alla casa nel 2011[iii].
LA RICONQUISTA. La parrocchia diffusa – altro modo di appellare la Chiesa villera di Bergoglio – contende il terreno palmo a palmo alle molteplici denominazioni del movimento evangelico che soprattutto dagli anni ’70 hanno incontrato nelle villas un habitat privilegiato. Il sociologo argentino Jorge Ossona, professore di Storia e ricercatore del Centro de Estudios de Historia Política (CEHP) dell’Universidad Nacional de San Martín (Unsam) e del Centro de Investigaciones en Estudios Latinoamericanos para el Desarrollo y la Integración (Ceinladi), fa risalire la “popolarizzazione evangelica” nei settori più umili di Buenos Aires e provincia a questo periodo, quando il peso della crisi si fece sentire in maniera più acuta e le parrocchie e le organizzazioni comunitarie vennero superate nella loro capacità di rispondere alle necessità che si concentravano al loro interno o attorno a loro: donne con mariti e conviventi disoccupati, con il conseguente aumento della violenza domestica, delle gravidanze adolescenti, delle pratiche delittive nella stessa villa. “Molti militanti confessionali hanno cominciato a mettere in discussione i parroci e i loro assistenti laici” argomenta Ossona che poi osserva: “Una delle componenti di questo movimento di ribellione finì nel pentecostalismo. I loro pastori non erano altri che gente del vicinato, accompagnati da mogli e figli. Il loro carisma e la scarsa formazione teologica si unirono per risolvere problemi concreti che andavano dalla dipendenza all’infedeltà e al crimine. Un ritualismo dai contorni quasi magici supportato da valori di alto potere emotivo come musica, l’etnia o la prossimità attrasse non solo individui ma interi contingenti familiari riconciliati dalla fede”[iv].
La moltiplicazione delle comunità del microcosmo pentecostale è stata inarrestabile nel corso dell’ultimo mezzo secolo in pressoché tutto il continente. Le indagini condotte dal Pew Research Center a livello latino-americano confermano – con poche variazioni rispetto a ricerche analoghe di altri organismi accademici – che il fenomeno dell’abbandono del cattolicesimo da parte di vasti settori della popolazione latino-americana è massiccio, “di portata epocale” secondo l’agenzia di Washington che registra un retrocesso dei cattolici tra il 1970 e il 2014 di oltre venti punti percentuali, passando dal 92% al 69%. Allo stesso tempo la ricerca segnala che nel medesimo periodo la percentuale dei “protestanti” è passata in media dal 4% al 19%, con punte più alte nei paesi dell’America Centrale dove in alcune località è già avvenuto il sorpasso sui cristiani di fede cattolica, apostolica, romana.
Nell’Argentina di Bergoglio i valori percentuali, tanto dell’abbandono del cattolicesimo come dell’espansione del movimento evangelico, sono notevolmente inferiori alla media continentale. Il sociologo argentino Fortunato Malimacci in una delle prime affidabili inchieste sulle “credenze e gli atteggiamenti religiosi degli argentini” offre il dato nazionale di una appartenenza religiosa al cattolicesimo del 76,5 per cento contro un 9 per cento di connazionali che si dichiarano evangelici, ripartiti nelle molteplici denominazioni in cui il movimento si frammenta anche in Argentina[v]. Vale la pena notare che la media nazionale decresce ulteriormente nelle villas miserias quanto ad appartenenza religiosa cattolica e aumenta l’adesione di settori della popolazione residente alle chiese evangeliche. Una diversa ricerca condotta nelle principali villas miseria della capitale argentina porta gli autori a concludere che l’identità religiosa maggioritaria continua ad essere la cattolica sebbene la percentuale sia inferiore rispetto a quella dell’Argentina nel suo insieme; dietro la Chiesa cattolica si posizionano le denominazioni cristiane non cattoliche, evangeliche, pentecostali e avventiste. Da notare però che le percentuali della comunità evangelica pentecostale sono sensibilmente più alte tanto a quelle che si registrano a Buenos Aires come a quelle rilevabili nel resto del paese, rendendo verosimile affermare che gli evangelici tendono a concentrarsi in settori di maggiore marginalità urbana[vi].
Il paesaggio urbano delle villas riflette la diversa presenza religiosa che c’è al loro interno. «Chiunque faccia un pur rapido giro nei quartieri precari della città non può non notare il numero e la varietà di simboli religiosi presenti nello spazio pubblico: immagini della Vergine nelle sue varie invocazioni: Luján, Caacupé, Copacabana, Urcupiña, ecc; croci e iscrizioni che indicano la presenza di cappelle cristiane (cattoliche o evangeliche); piccoli “santuari” di santi (Cayetano, Francisco, ecc.) che coesistono con icone popolari di santità come il Gauchito Gil, la Difunta Correa, ecc. Sono tutti emblemi che parlano di una religiosità viva e presente nella vita quotidiana delle persone in questi quartieri»[vii].
Come si è osservato il proselitismo dei movimenti evangelici nelle aree marginali di Buenos Aires si dirige ad una popolazione prevalentemente cattolica ed ottiene con essa i migliori risultati. Le ragioni della trasmigrazione cattolica in direzione evangelica sono ben colte nel documento finale di Aparecida risultato di un’ampia discussione tra i vescovi latinoamericani. «Secondo la nostra esperienza pastorale, molte volte, le persone in buona fede che lascia la nostra Chiesa non lo fa per quello che i gruppi “non cattolici” credono, ma, fondamentalmente, a causa di ciò che vivono; non per ragioni dottrinali, ma fondamentalmente, per quello che vivono; non per ragioni dottrinali, ma esistenziali; non per problemi teologici, ma metodologici, della nostra Chiesa. Sperano di trovare risposte alle loro inquietudini. Cercano, non senza gravi pericoli, di rispondere ad alcune aspirazioni che potrebbero non aver trovato risposta, come dovrebbero, nella Chiesa”[viii].
Ecco allora che la parrocchia diffusa, ospedale da campo per l’umanità che vi abita, produce un vero e proprio movimento di riconquista dei fedeli passati all’evangelismo o da questi reclutati ex-novo. E non come un progetto pianificato a tavolino ma come risultato naturale di una maggiore immanenza del cattolicesimo tra le popolazioni marginali di una città ed i relativi dinamismi che ne nascono.
“La parrocchia è il quartiere e il quartiere è la parrocchia”. Così, con una efficace immagine, padre Carrara riassume il progetto che, attraverso le cappelle, le “ermitas”, le nicchie alla Madonna, e le attività che lì si svolgono, rende possibile questa riconquista. “Cammini una strada e stai camminando la parrocchia che, come dice l’etimologia della parola, è ‘la Chiesa tra le case’”. Ma questo, avverte Carrara, “va fatto istituzionalmente, senza burocratizzare, in dialogo con la realtà e permettendo che l’istituzione possa aggiornarsi secondo ai bisogni di quella realtà”[ix].
UN MODERNO METICCIATO DI EMIGRANTI. Il tema dell’immigrazione, a cui Bergoglio dedica da Papa continui richiami, e l’approccio che ne dà reclamando ai paesi recettori di immigranti una generosa accoglienza e un altrettanto prodiga integrazione, ha nelle villas miserias di Buenos Aires il suo punto ispiratore. Dal punto di vista demografico le enclave urbane germinate nel tessuto della città sono il risultato della stratificazione di movimenti migratori successivi avvenuti in epoche diverse e con diverse provenienze, tanto dalle provincie argentine caratterizzate da un minor indice di sviluppo come dai paesi limitrofi all’Argentina: Paraguay, Bolivia e Perù in special modo, con una presenza cilena nella Patagonia argentina. E questo nel contesto di una nazione, l’Argentina, che è stata meta privilegiata dell’emigrazione europea per più di un secolo. Si pensi solo che nel 1870 la popolazione argentina non raggiungeva i due milioni di abitanti; sessant’anni dopo, nel 1930, la popolazione veniva stimata il quasi otto milioni. Sei milioni di “stranieri” emigrarono nel paese sudamericano dai grandi spazi scarsamente abitati e un numero significativo vi mise radici.
La popolazione esistente di nativi e spagnoli già ben mescolati – i così chiamati creoli – ricevette a braccia aperte le ondate – in certi momenti un vero tsunami – degli emigranti provenienti soprattutto dall’Italia e dalla Spagna ma anche da Polonia, Russia, Germania, Francia, Siria, Libano e altri paesi che allora facevano parte dell’Impero Ottomano e Turco. I nuovi arrivati superarono in poco tempo il numero dei nativi che li ricevevano. Il risultato fu un meticciato di sangue e culture pressoché unico nel mondo conosciuto. Diverso da quello prodottosi negli Stati Uniti, recettori anch’essi di emigrazioni massicce nei secoli XIX e XX ma in misura diversa e con un diverso rapporto tra nativi e non nativi.
Nello stesso periodo considerato per l’Argentina, dal 1870 al 1930, l’America del Nord fu terra d’approdo per 25 milioni di persone, che si aggiunsero ai 38,5 milioni che già vivevano sul territorio, un numero di stanziali superiore a quello dei nuovi arrivati. Il che segnala una prima vistosa differenza tra le due emigrazioni, quella orientata verso il sud e quella diretta verso il nord dell’America, dal momento che mentre la prima duplicava il numero dei creoli la seconda era largamente inferiore al numero dei nativi.
In una prima ondata migratoria verso gli Stati Uniti tra il 1820 e il 1870 predominarono irlandesi, scozzesi, scandinavi e tedeschi e nella seconda, tra il 1870 e il 1930, la maggior parte dei migranti furono italiani, greci, ungheresi, polacchi e altri di origine slava, compresi tra 2,5 e 3 milioni di ebrei, che si concentrarono per gruppi di origine in quartieri, città e regioni determinate, senza fondersi con i così chiamati WASP, bianchi, anglosassoni, protestanti. In Argentina al contrario la fusione tra coloro che già si erano stabiliti nel territorio e quelli che vi arrivavano è stata così completa che non si registrano nel “Paese dell’Argento” quartieri, città e regioni dove ci siano concentrazioni di popolazione raggruppate secondo le loro origini, e le caratteristiche culturali degli uni e degli altri si amalgamano in un sincretismo completo.
Non è l’unica singolarità che contraddistingue il meticciato latino avvenuto in Argentina da quello formatosi nei territori americani del nord. I creoli del sud e la maggioranza degli immigrati sopraggiunti appartenevano in larga prevalenza a una cultura cattolica che ne aveva formato l’identità religiosa e quella culturale, indipendentemente dal fatto che fossero o meno credenti e/o praticanti e a prescindere anche dalla loro adesione o rifiuto della Chiesa di Roma. I musulmani – secondo le più recenti stime – rappresentano meno dell’1 % dell’intera popolazione dell’America Latina. Come osserva il filosofo uruguayano Alberto Methol Ferré «L’America Latina, per la sua connessione con l’oceano Pacifico, è molto più sensibile alla presenza dell’elemento umano proveniente dall’Estremo Oriente che ad una presenza del mondo musulmano in quanto tale»[x]. Una situazione che anche negli anni a venire non registrerà cambiamenti significativi. Mentre il futuro dell’Europa, almeno dal punto di vista demografico, sarà favorevole all’Islam che nelle proiezioni dell’istituto Pew Reserch Center crescerà più rapidamente del cristianesimo, l’America Latina resterà l’area del pianeta in cui il tasso di crescita dell’insieme della popolazione supererà ampiamente l’incremento del numero di musulmani. Se la tendenza si confermerà senza alterazioni di nessun tipo a metà del secolo i fedeli dell’Islam saranno al di sotto dell’asticella del milione, meno di quanti ve ne fossero in Spagna o in Italia nel 2010[xi].
Non è la sola cosa che meriti di essere registrata nel comportamento dell’immigrazione islamica e il suo rapporto con l’insieme delle altre emigrazioni. In Argentina, musulmani ed ebrei hanno costruito un rapporto di sostanziale rispetto e di convivenza cordiale con i cristiani, anche quelli di fede cattolica, e atteggiamenti e concezioni discriminatorie e marginalizzanti, hanno sin dal principio suscitato il rigetto delle leggi e delle autorità formali che si sono succedute al governo nell’ultimo secolo. Un segno di questa tolleranza è simbolizzato dal presidente costituzionale argentino tra il 1989 e il 1989, Carlos Saul Menem, figlio di immigrati siriani, il cui padre era musulmano e la madre cattolica.
Bergoglio insomma appartiene ad un continente che ha la sua base culturale nel meticciato del secolo XVI successivo alla conquista ed è testimone di una “mescolanza moderna” spoglia di tensioni raziali inconciliabili che ha nelle villas miseria una rappresentazione riuscita. Basti pensare che solo due persone ogni 10 che abitano tali realtà marginali sono nate nella città di Buenos Aires. Una percentuale leggermente superiore è quella dei migranti interni le cui origini sono localizzate nelle diverse province argentine (27%), mentre più della metà sono immigrati internazionali, per lo più provenienti dai paesi limitrofi (53%). Nella villa di Bajo Flores che abbiamo più volte citato per le frequentazioni di Bergoglio vi risiede oggi una larga maggioranza di stranieri appartenente ad una qualche emigrazione, maggioritariamente provenienti dalla Bolivia[xii].
Nella villa miseria 21 di Barracas, anch’essa visitata con frequenza dall’arcivescovo di Buenos Aires, con una popolazione stimata di 45 mila persone, la percentuale di immigranti raggiunge i 78 punti percentuali, provenendo questi per un 35 per cento dall’interno dell’Argentina, un 38 per cento dal Paraguay, un per cento dal Perù ed un 2 per cento dalla Bolivia[xiii].
Quanto alla villa 31 di Retiro, una indagine realizzata dal governo della città di Buenos Aires stima nel 50,6 per cento il numero degli stranieri, dei quali un 23,9 proviene dal Paraguay, il 16,6 per cento dalla Bolivia e il 9,8 per cento dal Perù[xiv].
UN ESEMPIO DI PLURALISMO ECCLESIALE. Nella parrocchia ospedale da campo delle villas di Bergoglio c’è posto per tutti. Religiosi e religiose di congregazioni le più svariate, movimenti ecclesiali, volontari di associazioni laiche o ad ispirazione religiosa, Ong, volontariato ebraico e anche qualche islamico che a titolo personale collabora con le opere educative o sociali che sorgono come risposta alle necessità delle villas. “Anche dopo essere stato eletto Papa Bergoglio ha mantenuto un rapporto con le villas” assicura il vescovo Gustavo Carrara che menziona i lavori di rifacimento della cappella dedicata alla Virgen de Itatí con fondi fatti pervenire da Francesco. “Per questo gli abbiamo chiesto aiuto per far venire le Missionarie della Carità di Madre Teresa qui da noi”. Carrara confida di essersi rivolto direttamente alla superiora regionale per chiedere che alcune religiose si stabilissero nella villa. “Ci disse che in quel momento non stavano aprendo altre case e spiegò la ragione”. Una risposta giustificata ma che non bastò a disarmare il sacerdote, che scrisse al Papa: “Gli chiesi se ci potesse dare una mano per convincerle. Ho poi saputo che nel mese di gennaio ha scritto a Calcutta, alla madre generale Mary Prema Pierick (dal 2015) che a sua volta ha scritto alla superiora regionale”. La casa è infine arrivata, e il 13 di maggio 2017 è stata inaugurata in calle Bolorines y Castañares, sul territorio di una delle cappelle. «C’era bisogno di suore in una zona dove c’è abuso di droga e disoccupazione» ha dichiarato Madre Mary Prema Pierick, seconda successore di Santa Madre Teresa di Calcutta, spiegando con semplicità la decisione di assecondare la richiesta di iniziare una presenza delle Missionarie della Carità in uno dei quartieri più poveri Buenos Aires. Porteranno lì, nella villa miseria, la loro carità, tra disoccupati, cartoneros, manovali dell’edilizia, donne di servizio, ragazzi di strada, piccola criminalità e molta droga. E dove altri prima di loro hanno già creato mense comunitarie, doposcuola, centri professionali, case per anziani, centri diurni di recupero, Hogar de Cristo…
La parrocchia della villa 31, la Cristo Obrero fondata da Carlos Mugica, situata nel centro di Buenos Aires, è un poliedro di figure religiose. “Ci sono religiose di Mama Antula” dettaglia il parroco Guillermo Torre: “Ong come los Mensajeros de la paz, molto impegnati nell’educazione. Volontari che appartengono a gruppi, movimenti, parrocchie vicine che vengono in momenti forti o regolarmente tutti i sabati, come i ragazzi dell’istituto don Bosco Leone XIII che vengono a lavorare con i bambini”.
Lo stesso accade nella villa 21 di Barracas. Qui, racconta Pablo Rivadeneiro, un volontario che lavora nel centro barrial San Alberto Hurtado, la parrocchia di Caacupé è la casa madre di molteplici attività e organizzazioni. Lo schema, inventato da padre Pepe Di Paola durante la sua attività nel quartiere e poi replicato altrove, comprende la scuola di musica del genere murga, gli esploratori, il gruppo di uomini, mense, centri di formazione professionale, l’attività della Caritas, il centro San Alberto Hurtado e los Niños de Belén, che accoglie i minori che vivono nella marginalità più assoluta, nella maggior parte dei casi trascinandosi gravi problemi di dipendenza.
Articoli pubblicati:
CINQUE ANNI DI PONTIFICATO/3. Identikit della parrocchia secondo Bergoglio: aperta agli emigranti, diffusa sul territorio, pluralista e missionaria
[i] Aparecida 258-k
[ii] Intervista realizzata il 22 maggio 2017
[iii] Intervista realizzata il 1 marzo 2018
[iv] Jorge Ossona, Pobreza y Crisis Eclesiástica, Clarín 26/01/2018
[v] Dr. Fortunato Mallimaci, Primera encuesta sobre creencias y actitudes religiosas en Argentina, Buenos Aires, 26 de Agosto de 2008
[vi] “L’identità religiosa maggioritaria delle donne del nostro studio è cattolica (70,7%), seguita dall’insieme di denominazioni cristiane non cattoliche – evangeliche, pentecostali e avventiste – (13,1%). Questi dati coincidono con diversi studi che dimostrano che evangelici/pentecostali hanno una forte penetrazione tra i settori più svantaggiati (Seman, 2010, Wynarczyk e Oro, 2012, Marzulli, 2011, tra molti altri». Il risultato citato emerge da una ricerca condotta nelle villas miseria del Bajo Flores (la 1-11-14), la villa 21 di Barracas, villa 19 de Lugano –barrio INTA–, Los Piletones, la villa 6 Cildáñez, villa 3 (Fátima más Calecita), y el barrio R. Carrillo junto con Los Pinos. La población total en estos asentamientos es de 106.043 habitantes (CNPV, 2010), lo que representa al 65% de la población total de “villas” de la ciudad.
[vii] Suárez, A. L. (2014). La situación religiosa en las villas de la ciudad : aproximación a la religiosidad de las mujeres. En: Suárez, A. L., Mitchell, A., Lépore, E. (eds.). Las villas de la ciudad de Buenos Aires territorios frágiles de inclusión social. Buenos Aires: Educa
[viii] Aparecida n.225
[ix] Intervista realizzata il 21 gennaio del 2018.
[x] Alberto Methol Ferré-Alver Metalli, Il Papa e il Filosofo, Cantagalli, Siena 2014, p. 132
[xi] I sondaggisti del Centro di ricerca Pew prevedono che nel 2020 la popolazione del continente latino-americano registrerà un incremento del 27 per cento rispetto al 2010 mentre il numero dei seguaci dell’Islam crescerà di appena il 13%.
[xii] Su una percentuale totale di emigrati che raggiunge l’82 per cento, il 20 per cento arriva da una provincia dell’Argentina, un 49 per cento dalla Bolivia, un 6 per cento dal Paraguay e un 7 per cento dal Perù o altro punto dell’America Latina.
[xiii] E. Lépore, M. Ann, D. Leis, E. Rivero, J. Macció, S. Lépore, Capacidades de desarrollo y sociedad civil en las villas de la ciudad, Pontificia Universidad Catolica Argentina, Buenos Aires, 2012
[xiv] Quanto agli argentini residenti nella villa il 29,6 per cento è nato a Buenos Aires, il 4,6% nella provincia e il 14,7% in altre provincie dell’Argentina.