Essere schiave senza che nessuno –non le vittime, tantomeno la società- se ne accorga. È la sorte che tocca a tante giovani donne e bambine in Bolivia. Nelle principali città del paese andino, questa realtà ha il volto dei bambini e bambine costrette a mendicare guardate a vista da adulti. Nelle campagne, invece, il fenomeno ha il nome di “padrinaggio”: i bambini vengono inviati dalle famiglie nelle case dei padrini, in città, come forza lavoro gratuita.
Una cosa accomuna le due situazioni: in entrambe, le vittime sono invisibili perché le pratiche sono considerate un fatto culturale naturale: così è perché così si è sempre fatto.
Eppure, a guardare i numeri, il fenomeno è molto di più di un fatto culturale. Secondo i dati della Direzione di Vittime della Procura Generale, solo dal 2012 al 2016 i casi intercettati sono stati più di duemila. Di questi, 912 –circa la metà- sono minori dai 0 ai 18 anni, vittime di pratiche riconducibili alla tratta e al traffico di persone. E non solo: quasi tutte -840- sono bambine e ragazze minorenni.
Ultimamente però, qualcuno che lotta per cambiare le cose, forse anche ricordando le parole del Papa contro la tratta di persone, c’è. “Non sanno che sono vittime di tratta, e nemmeno la popolazione”, ha spiegato al giornale boliviano La Prensa Jimena Tito, responsabile nazionale per la Protezione dell’Infanzia della ONG cristiana di aiuto umanitario e tutela dei diritti Visione Mondiale Bolivia. “Per questo è difficile avere dati certi su questi casi perché in Bolivia non esiste la cultura di denunciare pratiche di questo tipo”.
È probabile, insomma, che i numeri siano in realtà ben più alti.
Secondo l’esperta dell’organizzazione non governativa, le vittime più vulnerabili sono le giovani adolescenti, utilizzate per fini di sfruttamento sessuale e lavorativo. Questo fenomeno, ha spiegato, sorge con il “padrinaggio” (padrinazgo), la pratica abituale e radicata con la quale una bambina è trasferita dalla campagna in città con i padrini che le impiegano, senza peraltro dare loro neppure un salario minimo.
Ma in un paese come la Bolivia, considerato paese di origine, transito e arrivo di persone vittime di tratta e sfruttamento, far sì che la società prenda coscienza non è facile. “La popolazione in generale lo naturalizza, lo rende invisibile, non si accorge o non sa che si tratta di crimini. Noi trasmettiamo questo nelle scuole”, spiega ancora Tito. “Crediamo che la prevenzione non è soltanto l’attenzione e la protezione delle vittime, ma anche la diffusione della conoscenza affinché sia le autorità che la popolazione possano rendersi conto della gravità di questi fenomeni”.
E qualcosa, in effetti, si è mosso. Soprattutto a partire dall’approvazione (nel 2012) di una “Legge contro la Tratta e il Traffico di Persone” -che Tito definisce “abbastanza forte e consolidata” – e la costituzione di un Consiglio Plurinazionale di Lotta Contro la Tratta e il Traffico di persone.