Due cappelle incendiate nell’ultima settimana, entrambe nella regione La Araucania, una, S. Joaquina, al km 5 della strada verso Niagara, comune di Padre Las Casas, la seconda una cappella che da 30 anni era punto di riferimento per i fedeli della zona a Quepe, nel comune di Freire, al chilometro 2,5 della strada per Mahuidanche, una zona rurale a sud di Temuco. Sul luogo, in entrambi i casi, è stata trovata una tela nera con scritte bianche, parzialmente distrutte dal fuoco, che riportavano le lettere “p.p.m.”, acronimo comunemente usato per riferirsi ai prigionieri politici Mapuche. Sullo sfondo degli attentati incendiari si staglia il “conflitto Mapuche” che contrappone dagli anni 90 il più grande e importante gruppo etnico del paese agli agricoltori e agli imprenditori a causa della proprietà delle terre.
Sulla nuova escalation di violenza intervengono con un documento e un’appello un gruppo di dieci religiosi che vivono e lavorano nel territorio Mapuche. Il loro è pertanto un punto di vista affidabile. “In molte aree in cui forniamo il nostro servizio” si legge nel testo, “vediamo che questa pressione viene da un modo di vita basato sul paradigma dell’accaparramento delle terre e dell’estrattivismo. Lo vediamo nei conflitti territoriali attuali per l’acqua (centrali idroelettriche), per la terra (forestazione), per il mare (pesca industriale) e per la presenza di discariche e tralicci elettrici. Gli scenari di conflitto attuali – assicurano i religiosi – sono tutti legati ad attività industriali che rispondono a questo modello di intervento che minaccia la vita delle comunità mapuche”.
I religiosi denunciano quindi la “militarizzazione del territorio, la persecuzione politica e giudiziaria di molti uomini e donne provenienti dalle comunità, l’incendio di case, i feriti negli scontri, i danni inflitti ai bambini e alle bambine dal clima di conflitto, le intimidazioni e le minacce fino ad arrivare agli episodi degli ultimi giorni con l’incendio di chiese”.
I firmatari dell’appello manifestano allarme per una polarizzazione che può preludere a scontri “sempre più violenti, con incendi, uso di armi da fuoco, repressione delle comunità da parte della polizia, arresti arbitrari, danni fisici ai membri della comunità e carabinieri, violazione dei diritti dei bambini e una lunga sequela di reazioni che distruggono la convivenza”.
Il gruppo di religiosi, tanto sacerdoti come appartenenti a comunità monastiche, criticano il silenzio della Chiesa cilena, “per tanti anni impegnata con la causa dei diritti del popolo Mapuche e oggi sempre più silenziosa e distante, incapace di mediare nella ricerca di un dialogo per la costruzione della giustizia che porta la vera pace”. Nel testo si incontra anche un richiamo all’Enciclica Laudato Si di Papa Francesco sul danno crescente arrecato alla natura e alle sue creature da “un’élite imprenditoriale che non si ferma nella sua brama di lucro”.
Alla base dei principali conflitti che il popolo Mapuche sostiene in Cile c’è lo sfruttamento del territorio da parte di grandi imprese del settore minerario, turistico, energetico e in particolar modo forestali che praticano la monocoltura intensiva di specie esotiche (pini, eucalipto ecc.) al fine dell’esportazione di legname. Quello che si sta verificando negli ultimi anni è un aumento esponenziale dello sfruttamento del territorio ancestrale che implica forti danni economici, sociali e culturali alle comunità Mapuche, obbligandoli al trasferimento forzato e a rifugiarsi ai margini delle città, a vivere in condizioni disagiate e degradate, con conseguente disgregazione delle comunità stesse e costretti ad essere oggetto di sfruttamento offrendo manodopera a basso costo pur di mettere assieme il denaro per vivere.
Il documento si conclude con due proposte: la restituzione da parte dello stato delle terre anche a costo di esercitare pressioni sulle industrie perché le cedano o vendano, fino all’uso della legge che ne disponga l’esproprio per ragioni di utilità o sicurezza nazionale, ed un risarcimento alle comunità mapuche in termini di possibilità di sviluppo autonomo: “Non basta riavere la terra se permangono le condizioni di disuguaglianza che rendono impossibile vivere della terra. Occorre un grande sforzo per creare alternative produttive sostenibili. La sovranità alimentare è il diritto dei popoli a produrre da se stessi il cibo culturalmente appropriato in modo sostenibile, cioè il diritto di decidere il proprio sistema alimentare e agricolo”.