Il ritrovamento. Lunedì, dopo la sparizione avvenuta la scorsa settimana a Tumeremo, nello stato meridionale di Bolivar, la conferma del ritrovamento dei corpi di 17 dei 28 minatori venezuelani. Sono stati probabilmente giustiziati a freddo: tutti i corpi presentano ferite di arma da fuoco alla testa. Lo stesso accadde nel settembre del 2014 in Messico, ad Iguala, anche se lì l’orrore fu -se possibile- ancora peggiore: all’assassinio face seguito la bruciatura e completa distruzione dei resti degli studenti, tanto che molti di loro ancora non sono stati identificati o ritrovati. In Venezuela come in Messico, poi, è una storia di fosse comuni: quella dove si trovavano i resti dei minatori era profonda 5 metri; a Guerrero -lo stato messicano di Ayotzinapa, la località del massacro- se ne contano a centinaia, e ne spuntano continuamente di nuove.
La dinamica dei fatti. C’è un altro filo rosso che lega minatori e studenti: sono vittime della rete di complicità e connivenza tra autorità locali e bande criminali. Nel caso messicano, gli studenti furono sequestrati e uccisi dal gruppo narco-mafioso dei “Guerreros Unidos” in combutta con la polizia di Iguala che agiva sotto gli ordini dalla coppia criminale composta del sindaco e la moglie. In Venezuela c’è di mezzo una banda mafiosa in lotta per il controllo delle numerose miniere illegali presenti in quella parte del paese, al confine col Brasile. Un business che fa ancora più gola ai malviventi da quando il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha annunciato, proprio la settimana scorsa, un nuovo piano per rafforzare lo sfruttamento minerario, misura adottata de Caracas nel tentativo di risollevare la disastrata economia del paese.
In Venezuela la banda mafiosa in questione porterebbe nell’entourage de “El Topo” (la talpa), il capo di uno dei quattro gruppi che si contendono il controllo delle miniere nello stato di Bolivar. E anche qui, come in Messico, c’è il probabile coinvolgimento della polizia: ieri le autorità hanno annunciato l’inizio di un’indagine sui poliziotti venezolani.
Prima il disconoscimento, poi le accuse, infine le indagini. Una costante anche questa nelle due storie di criminalità, connivenze e impunità che legano il Messico al Venezuela. Il governatore di Bolivar, Francisco Rángel Gómez, quando già aveva iniziato a circolare la notizia della sparizione dei minatori, aveva assicurato -salvo poi fare marcia indietro- “che non c’era nessun problema in Tumeremo”. Parole simili a quelle usate a suo tempo in Messico dal governatore dello stato di Guerrero, Angel Aguirre, poi dimessosi travolto dal caso. Solo dopo l’iniziale negazione arriva, tardiva e spesso inutile, la reazione delle massime cariche politiche e giudiziarie. In tal senso, l’ordine di militarizzare la zona con 1000 soldati data da Maduro e la spettacolare operazione di ricerca degli studenti lanciata da Peña Nieto nel 2014 sono speculari.
Un’alta costante è la iniziale criminalizzazione delle vittime. Per alcune autorità gli studenti erano pericolosi sovversivi, così come i minatori venezolani sarebbero in qualche modo coinvolti in attività delittuose.
Chiesa. Paragonabili, anche, le prese di posizione della chiesa. La condanna di quella messicana arrivò dalle colonne del settimanale dell’arcidiocesi del Messico “Desde la Fe”; con un comunicato di quella venezuelana, volto “richiamare l’attenzione perché non si tratti di un episodio tra i tanti irrisolti nella storia del Venezuela”.
C´è però una importante differenza tra le due vicende. In Messico, quello degli studenti di Ayotzinapa si trasformò ben presto in un caso capace di fare traballare il governo di Peña Nieto, con proteste vaste nelle piazze e campagne virali sulle reti sociali per chiedere giustizia. Certo, allora un ruolo importante per smuovere l’opinione pubblica lo giocò la rapida e decisa presa di posizione e la campagna di sensibilizzazione portata avanti da genitori, familiari e compagni (mentre i minatori in Venezuela, in gran parte persone sole e sradicate, non possono contare su una base altrettanto coesa e capace di far sentire la propria voce). Però non c’è dubbio che quella reazione fu per il Messico un segnale positivo, che dimostrò la vitalità di una parte importante della sua società civile. Nel Venezuela attuale, alle prese con la fase terminale del chavismo, stretto in una crisi economica e sociale senza precedenti, sembra molto difficile poter sperare in un esito analogo.