La rivista statunitense Science ha recentemente pubblicato uno studio sulle origini degli antichi popoli delle Americhe. Secondo i risultati della ricerca esisterebbero legami genetici tra gli aborigeni australiani e gli indigeni dell’Amazzonia. Una matrice comune che è stata confermata anche dalle indagini effettuate dal team della rivista britannica Nature.
Da molti anni antropologi e archeologi dibattono sulle origini e le dinamiche di questo contatto. La tesi dei migranti partiti dal continente asiatico che attraversano la fascia di terra tra Siberia e Alaska, oggi sommersa dalle acque dello stretto di Bering, è universalmente accettata dalla comunità scientifica. David Meltzer, archeologo alla “Southern Methodist University” di Dallas in Texas, afferma che «una differenza chiave consiste nel capire quando e come questo sia avvenuto». Il team di Nature è convinto che il contatto si sia verificato in seguito a una o due antiche ondate migratorie nel continente, mentre i consulenti di Science sostengono che avvenne molto più tardi e correlato al popolamento iniziale. Al di là delle ordinarie divergenze, sostiene Jennifer Raff, antropologa della “University of Texas” di Austin, le due riviste hanno aperto una «incredibly exciting window» sugli studi riguardo agli antenati degli odierni amerindi.
Quattro anni di ricerca sono serviti al team di esperti della rivista americana per sequenziare 31 genomi completi e 79 parziali di individui provenienti dal Nord e Sud America, dalla Siberia e dall’Oceania. Le mappature sono state poi confrontate con i genomi di tre antichi scheletri: Mal‘ta child (24.000 anni, Siberia), Anzick child (12.600 anni, Montana) e l’uomo di Saqqaq (4.000 anni, Groenlandia). I risultati hanno confermato che tutti gli amerindi, antichi e moderni, derivano da una «source population» comune localizzata in Siberia. Circa 23.000 anni fa si sarebbe separata dalle altre popolazioni asiatiche per insediarsi nella «Beringia», il lembo di terra oggi sommerso. Dopo una sosta di 8.000 anni si diffusero in America in una sola ondata migratoria per poi dividersi nuovamente tra Nord e Sud America all’incirca 13.000 anni fa.
Tracce di DNA australo-melanesiano in alcuni amerindi viventi, inclusi quelli delle isole Aleutine e la popolazione Surui del Brasile amazzonico, restano il dato più sorprendente della ricerca. Alcuni antropologi avevano già suggerito un collegamento, illustrato nel cosiddetto «Paleoamerican model». Walter Neves della “University of Sao Pãolo” in Brasile e Mark Hubbe della “Ohio State University” di Columbus sostengono l’esistenza di una «source population» diversa, giacché alcuni individui di amerindi estinti presentavano crani stretti e lunghi fortemente somiglianti a quelli di molti australo-melanesiani.
Nondimeno, i dati della ricerca del team di Science contestano il «Paleoamerican model» perché la mappatura di 17 genomi di individui estinti del Sudamerica con quei tratti distintivi non ha mostrato alcuna traccia di ascendenze australo-melanesiane. Da parte sua David Reich, genetista della “Harvard Medical School” di Boston e leader del gruppo di ricerca di Nature è d’accordo con Mark Hubbe quando sostiene che i 17 genomi sono incompleti e coprono un range molto esiguo per offrire dati scientifici ragionevoli. Il suo gruppo di ricerca ha analizzato sequenze parziali di genoma da 106 amerindi di 25 popolazioni diverse di Centro e Sud America e li ha confrontati con i dati del DNA di 197 popolazioni esterne al continente americano. Alla fine, ha scoperto che alcuni abitanti dell’Amazzonia mostrano ascendenze comuni per l’1% o il 2% con i nativi odierni di Australia, Nuova Guinea e Isole Andaman. Le differenze tra DNA condivisi suggeriscono che l’ascendenza non provenga direttamente da queste popolazioni, ma da un’altra – oggi estinta – chiamata “Popolazione Y”, vissuta da qualche parte nell’est dell’Asia e che in un’epoca molto remota ha trasmesso geni comuni ai paleo-americani e agli australo-melanesiani.
Si tratta, molto probabilmente, di un antico anziché recente contributo genetico che giunse in America in seguito a una lontana “pulse of migration”. Reich aggiunge che i dati entrano in conflitto con il «Paleoamerican model» giacché postula una maggiore e più diretta influenza genetica dal ceppo australo-melanesiano sulle popolazioni amerindie.
Una o due «source population»? Antichi o recenti contatti tra popolazioni? I dati scientifici avanzati da Science e Nature non permettono un’interpretazione univoca, ma offrono due analisi estremamente ragionevoli. Solo la mappatura di un numero sempre maggiore di genomi aumenterà i dati disponibili e forse risolverà il mistero così da concedere la palma della vittoria a una delle due prestigiosissime riviste. E chissà che la scienza, la storia e l’archeologia possano rivelare l’esistenza di una terza via.