La popolazione di origine ispanica ha già superato negli Stati Uniti i 60 milioni di persone (includendo i clandestini) ed arriverà a 130 milioni nel 2050. Per quella data, secondo le proiezioni statistiche, ogni tre americani uno sarà ispanico. Questa presenza emergente, rafforzata da indici sempre più alti di alfabetizzazione, integrazione sociale, lavorativa ed economica, avrà ripercussioni incalcolabili sulla vita di questa grande nazione. Continuerà così al suo interno – in modi sempre più complessi ed in gran misura ancora imprevedibili – un profondo riassetto culturale in grado di conferire un profilo completamente nuovo al tradizionale “melting pot”. Non mancheranno, inoltre, conseguenze molto importanti nella vita politica del paese. Affermazione, questa, ancor più vera se si tiene conto del fatto che tra 6 anni, nel 2020, la metà dei cattolici degli Stati Uniti saranno di origine ispanica, percentuale che aumenterà fino all’86% nel 2050.
Tenendo a mente questa proiezione, si capisce quanto sia stata profetica l’intuizione di San Giovanni Paolo II quando convocò l’Assemblea sinodale per tutta l’America. Si trattò di un annuncio talmente inedito, inaspettato e sconcertante per i vescovi presenti da non essere neppure raccolto all’interno del documento finale dell’assemblea di Santo Domingo (1992). Ricevette, in generale, adesioni abbastanza formali e, talvolta, perplesse. Anche i contributi delle varie Conferenze Episcopali del continente durante la fase preparatoria furono piuttosto scarsi, di rilevanza relativa ed abbastanza vaghi nella formulazione delle tematiche. La cosa più importante di quell’quell’evento furono i vincoli di amicizia che si crearono o approfondirono tra i vescovi nordamericani e quelli latinoamericani. La stessa esortazione apostolica post-sinodale, “Ecclesia in America” (22 gennaio 1999) è stata, più che un frutto maturo, un’indicazione affinché le Chiese in America si assumessero in pieno la responsabilità di percorrere quel sentiero non ancora battuto. Dopo quell’Assemblea sinodale, ci furono altri incontri del gruppo di padri scelto per dare continuità agli scambi. Tuttavia, bisognò attendere il Congresso “Chiesa in America”, realizzato dal Vaticano nel dicembre del 2012, ed il pellegrinaggio e incontro nel Santuario della Nostra Signora di Guadalupe nel novembre del 2013 perché l’intuizione profetica del Papa venisse ripresa in tutta la portata che conteneva.
Del resto la mancanza di comunicazione tra America Latina e Stati Uniti è un fenomeno il cui apice si ebbe specialmente nei secoli XVII e XVIII e fino alla seconda metà del secolo XIX, quando si proietta verso il Sud il “destino manifesto” degli Stati Uniti. Comincia in questo modo l’espansione in America Latina del capitale nordamericano con le sue imprese, iniziano, i frequenti interventi militari nelle varie aree considerate a rischio di sovversione.
Come contrappunto, l’allarme dinanzi all’espansione statunitense fa sì che la generazione intellettuale latinoamericana della fine del XIX secolo recuperi la consapevolezza dell’unità latinoamericana, “bolivariana”. Sono i tempi della “Nostra America” di Martì, della “Ode a Washington” di Rubén Dario, che canta ai popoli che “ancora credono in Gesù Cristo e parlano spagnolo”, di Ariel contro Caliban in José E. Rodò, di “bolivarismo” contro “monroesimo”, di “latinoamericanismo” contro “panamericanismo”. In tempi di guerra fredda, invece, l’America Latina rimane per gli Stati Uniti il “cortile di casa”, ben integrato nella sua fascia continentale di sicurezza, di contenimento e lotta al comunismo. In seguito, la ben intenzionata “Alleanza per il Progresso” finisce rapidamente nel nulla. Di fronte alla rivoluzione cubana ed alla sua svolta marxista-leninista, il suo adagiarsi sull’Unione Sovietica e la sua strategia guerrigliera, l’amministrazione statunitense passa a preferire il linguaggio delle armi. L’America Latina entra in una fase di politica della morte e di morte di ogni politica. Sono tempi latinoamericani di “teoria della dipendenza” e “teologia della liberazione”.
Anche durante le sessioni del Concilio Ecumenico Vaticano II non ci fu un maggior intensificarsi nei rapporti tra i Padri conciliari latinoamericani e nordamericani, salvo limitate eccezioni. Solo in seguito le relazioni cominciano ad acquisire un certo ritmo, ad esempio con il conferimento da parte della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti di aiuti all’Ufficio per l’America Latina, la creazione delle delegazioni di Pastorale ispanica e la realizzazione dei Congressi di Pastorale ispanica nel paese, l’incremento di sacerdoti latinoamericani al servizio di diocesi statunitensi, la eco della teologia della liberazione, le riunioni annuali di delegati del CELAM con quelli delle Conferenze Episcopali di Stati Uniti e Canada (dal 1969) e quelle triennali tra le Conferenze di Religiosi/e (dal 1971). Tuttavia, si tratta di relazioni piuttosto sporadiche, marginali, frammentate, in ogni caso meno intense di quelle mantenute dalle Chiese dell’America Latina con le Conferenze Episcopali del mediterraneo europeo e della Germania.
San Giovanni Paolo II, quando ebbe l’intuizione profetica dell’Assemblea Sinodale per l’America avvertiva che in tempi di globalizzazione le frontiere si avvicinavano e compenetravano sempre più. È significativo che il Santo Padre lanciasse quest’iniziativa poco tempo dopo la caduta del “muro” di contrapposizione nella dialettica Est-Occidente, al termine della fase storica dei due blocchi seguita a Yalta. Nell’idea del Papa, altri muri avrebbero dovuto cadere come conseguenza, specialmente quelli che separavano Nord e Sud, i mondi iper-sviluppati ed opulenti da quelli dipendenti ed impoveriti, per una “globalizzazione della solidarietà”. E in questo senso, il continente americano gli appariva come il luogo più propizio per affrontare quella grande questione, essendo la regione in cui si originano e convivono situazioni di sviluppo squilibrate e grandi asimmetrie di potere con una popolazione che somma la metà del cattolicesimo mondiale. Per cercare di far cadere quel muro c’erano da superare tanto le contrapposizioni reciproche quanto l’ ignoranza e l’indifferenza tra i vari interlocutori. Non si poteva rimanere ancorati alle rispettive “leggende nere”, secondo cui gli Stati Uniti appaiono ai latinoamericani soltanto come pura e semplice incarnazione di un “imperialismo” minaccioso, mentre l’America Latina è agli occhi dei nordamericani il territorio del mondo dove vivono popoli condannati al sottosviluppo per il fatto stesso di essere maggioritariamente “cattolici”.
Con la caduta del “socialismo reale” e la crisi delle grandi ideologie, il tempo parve finalmente propizio. A ben poco servirono l’“Iniziativa per le Americhe”, lanciata da George Bush (padre) nel 1990 così come la proposta dell’“Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA)”, dell’amministrazione Clinton (1994) e il “Consenso di Washington” per un nuovo ordine neoliberista delle economie del continente. Tali programmi non fecero altro che risvegliare sospetti e attirarsi le critiche latinoamericane, mentre si susseguivano crisi finanziarie ed aumentavano le inique disuguaglianze sociali. In tempo di grave crisi economica statunitense ed europea, negli ultimi dieci anni sono poi prevalse tendenze protezionistiche: un “mix” di disinteresse, incertezza e perplessità della politica nordamericana di fronte alle trasformazioni politiche in corso in America Latina ed un’attenzione prioritaria alla guerra contro il terrorismo ed alle questioni mediorientali.
Oggi sembrano esserci migliori condizioni per riconsiderare a fondo, con serietà e rispetto, le relazioni inter-americane, affrontando problemi gravi e diversi. E non si tratta più soltanto di rapporti “bilaterali” tra Stati Uniti e gli stati disuniti dell’America Latina, ma piuttosto di rapporti con un’America Latina impegnata in processi di integrazione economica e politica. L’originalità storico-culturale del continente latinoamericano è caratterizzata da un meticciato fondazionale, complesso e disomogeneo, indo-afro-ispanico (con predominio dell’ispanico), tenuto insieme da un cattolicesimo barocco come substrato culturale. In esso la dimensione misterica della fede – drammatica e festosa allo stesso tempo – prevale sulla sua dimensione morale; è una “trascendenza” manifestata nella florida “religiosità popolare”, con una densa rete di mediazioni tra Dio e gli uomini, non solo per il forte impianto istituzionale della Chiesa e per la sua ritualità, ma anche perché piena di devozioni a Cristi sofferenti e a sua Madre, la Santissima Vergine Maria – in una moltitudine di invocazioni -, ai santi e ai defunti, cosa che dà origine ad un “continuum” tra fede, cultura e vita.
Diversamente negli USA, in quel grande calderone di raccolta costituito dalle successive migrazioni che sono andate componendo la popolazione nordamericana stabilitasi in quegli enormi spazi aperti, in assenza di meticciati fondazionali la sintesi culturale dominante è stata cristiano-protestante-puritana, combinata con l’illuminismo anglosassone. Le ondate di immigranti cattolici poveri, soprattutto dall’Irlanda, poi dall’Italia, e ancora dall’Impero Austro-Ungarico in decomposizione e quelle composte da rifugiati dell’est europeo in fuga dalla persecuzione comunista, soffrirono disprezzo, marginalizzazione ed incluso persecuzione. Per lo stesso motivo, quei primi immigrati svilupparono un forte senso di appartenenza alle loro stesse comunità cattoliche locali: e ciò avvenne attraverso la partecipazione liturgica, il sostegno economico alle comunità ed il senso di responsabilità per le loro opere educative ed assistenziali. Dovettero poi passare attraverso processi di assimilazione ed inculturazione per essere riconosciuti con titoli rispettabili di cittadinanza, soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale e grazie alla crescita educativa ed economico di significativi settori cattolici. Pagarono anche tributo alla cultura dominante, tentata dall’eresia dell’americanismo.
La Chiesa dell’America Latina, ed anche gli ispanici negli Stati Uniti, hanno molto da imparare da quel senso di appartenenza dei cattolici nordamericani alle loro comunità locali, dall’alta partecipazione dei battezzati alle liturgie domenicali, dai loro livelli più alti di vocazioni sacerdotali, dalla responsabilità economica nel sostegno delle loro opere. D’altra arte anche la Chiesa degli Stati Uniti ha molto da arricchirsi dalla presenza degli “ispanici”: ben coscienti e consapevoli, questi ultimi, che il cammino più sicuro per giungere a Cristo è quello della maternità della Vergine Maria, accolti sotto il suo mantello e in comunione coi santi, allegri e speranzosi nel Signore, più misericordiosi che moralisti, testimoni dell’amore prediletto del Signore verso i poveri e i semplici.
Gli “ispanici” negli Stati Uniti non possono accontentarsi delle loro nicchie di espressione e consumo religiosi, ma devono collaborare a forgiare rinnovate sintesi di vita cristiana, più compiutamente conformi al Vangelo.
La questione dell’identità degli Stati Uniti in tempi di globalizzazione – con una forte domanda di sicurezza di fronte alla minaccia del terrorismo ed alla diffusione di violenze di ogni tipo – si pone in modo drammatico. A volte le reazioni al problema migratorio sono difensive ed istintive, senza futuro in una nazione di immigranti, i cui componenti “anglo” non fanno che decrescere demograficamente. E nemmeno avranno futuro se non affronteranno seriamente le enormi disuguaglianze sociali del continente, per cui tanta gente lascia le sue case e famiglie in cerca di condizioni degne di esistenza, rischiando la vita nella via crucis che va dal Centroamerica alla frontiera al nord del Messico. Sono mossi dalla necessità e dalla disperazione e le numerose e generose rimesse che vengono rinviate dagli Stati Uniti ai paesi di origine da parte degli immigrati, spesso dediti a lavori molto sacrificati, dimostrano il loro attaccamento alla patria e alla famiglia. Ma le difficoltà che incontra l’attuazione di una vera “riforma migratoria” e le ondate di deportazioni di massa degli ultimi anni, spesso con la separazione di intere famiglie, sono espressione di profondi timori e resistenze nel corpo sociale, che arrivano ad alimentare anche comportamenti xenofobi. Oggi, inoltre, si pone il problema della drammatica “emergenza umanitaria” costituita dalle migliaia di minori centroamericani che migrano verso gli Stati Uniti.
Si chiede nel documento di Aparecida e nella “Evangelii Gaudium” una conversione pastorale delle strutture, delle comunità ecclesiastiche e dei piani pastorali, affinché non si fossilizzino nell’inerzia o perdano dinamismo evangelizzatore. “Uscire” è il verbo più usato da Papa Francesco: uscire dalla nostra autosufficienza, uscire dalla nostra autoreferenzialità ecclesiastica, uscire dalle nostre nicchie rassicuranti. Ed andare all’incontro delle periferie, siano sociali o esistenziali, dove è in gioco la vita ed il destino delle persone, delle famiglie e dei popoli. È la miglior risposta che possiamo dare per seguire il Papa. Il Cardinale Bergoglio rimase molto impressionato quando Papa Benedetto disse, nell’omelia della Messa di inaugurazione della V Conferenza Generale di Aparecida, che il cristianesimo cresceva non per proselitismo, ma per attrazione. La missione nasce – ripeté Papa Francesco all’episcopato brasiliano – dalla fascinazione divina e dallo stupore di un incontro. Che cos’è la missione – a cui Papa Francesco ci spinge con veemenza – se non un’attrazione, l’attrazione di una bellezza nella vita – splendore della verità! – che sveglia i cuori addormentati, rompe la cappa d’indifferenza, fa cadere pregiudizi e resistenze, mette in marcia i desideri più profondi del cuore della persona, suscita presentimenti curiosi e domande piene di aspettativa?
Traduzione dallo spagnolo di Andrea Bonzo
*Segretario incaricato della Vice-Presidenza della Pontificia commissione per l’America Latina