LA GABBIA DORATA. Una epopea di dolori e speranze sulla rotta dei migranti dell’America Centrale

Una scena del film "La Jaula de Oro"
Una scena del film "La Jaula de Oro"

Il nuovo portale Migrantes Hoy, creazione congiunta della Chiesa latinoamericana (CELAM) e quella statunitense (USCCB), segnala il film “La gabbia dorata” (La Jaula de Oro è il titolo originale), la straordinaria opera prima del regista spagnolo Diego Quemada-Díez. Vi si parla della frontiera, quella reale dei diversi stati dell’America Centrale e quella allegorica ma altrettanto reale intesa come limite e separazione, linea immaginaria che separa i ricchi dai poveri, terre economicamente sviluppate da altre ferme sotto il giogo di una grande arretratezza. Confini da oltrepassare, navigando su corsi d’acqua, strisciando in angusti cunicoli, camminando sulle rotaie di una ferrovia che dovrebbe portare al progresso, ad una realtà migliore, almeno sulla carta. Il viaggio di Juan, Sara e Chauk, tre adolescenti guatemaltechi che lasciano i luoghi dove sono nati per raggiungere gli Stati Uniti, è quello di tutti i migranti, di uomini alla ricerca di un luogo solo concettualmente distante in cui giocarsi la possibilità di essere diversi da quello che la geografia ha scelto per loro alla nascita. Il loro sarà un percorso pieno di insidie, un cammino nella disperazione, contro tutto e tutti.

La gabbia dorata non è un film ideologico, una pura denuncia, e non è riconducibile ad appartenenze politiche; le tematiche si ingrandiscono con il procedere della narrazione, che a sua volta è crocevia di storie emblematiche che ne racchiude mille altre simili, tutte autentiche.

Premiato a Cannes e al Giffoni Film festival con il Grifone d’Oro come miglior film, La gabbia dorata sviluppa un’attenzione commovente (ma mai retorica) per gli “ultimi” del mondo. Diego Quemada-Diez ha la straordinaria capacità di raccontare un cinema a misura d’uomo, asciutto e compassionevole a un tempo.

il regista spagnolo porta letteralmente lo spettatore spalla a spalla con la marea del popolo migrante, lo trascina sui tetti dei treni – mostri metallici simbolo del progresso, olimpicamente indifferenti alle speranze, ai sogni e al dolore che trasportano sotto forma di uomini – e ci fa affezionare ai protagonisti, spiazzandoci letteralmente quando questi vengono improvvisamente travolti dagli eventi. Non c’è alcun compiacimento verso le regole dell’entertainment, solo un crudo ma al contempo poetico realismo che ci fa sentire la verità delle cose narrate.

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