Proprio il futuro Papa, il cardinal Bergoglio, nel giugno del 2010 presentò, a Buenos Aires, il libro L’America Latina del secolo XXI di cui Mujica gli ha fatto omaggio all’inizio della recente visita in Vaticano. All’origine di L’America Latina del XXI secolo, la lunga intervista che realizzai a Methol Ferré nel 2006, c’è stato un importante appuntamento in cui proprio l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio oggi Papa Francesco ha avuto un ruolo di prima grandezza: la V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano che si è svolta nel santuario di Aparecida nel maggio del 2007, inaugurata dal predecessore, il dimissionario papa Benedetto XVI. Con il senno di poi sappiamo che quell’adunanza continentale in Brasile, l’altra metà dell’America Latina di lingua portoghese, è stata lo snodo di due papi, una sorta di ideale passaggio di testimone.
Il libro è un affresco tematico dell’America Latina contemporanea tracciato con la convinzione che l’attualità, il presente, non si capiscono solo e soprattutto con l’analisi dell’attualità, con la frequentazione più assidua delle cronache del presente. Di qui il percorso seguito in queste pagine: dall’oggi dell’America Latina, al suo passato recente e anche più remoto, in un viaggio a ritroso verso le fonti da cui zampillano quei fenomeni di cui vediamo la manifestazione ai nostri giorni, per ritornare al presente con un accresciuto bagaglio di ipotesi esplicative con le quali partire di nuovo per scandagliare il futuro. Presente-passato-presente-futuro: se si potesse raffigurare con un grafico il metodo di lavoro perseguito, queste ne sarebbero le coordinate. Il pensiero di Methol Ferré emerge arioso, vivace, naviga sicuro nelle pieghe della storia latinoamericana, crepita, in certi momenti, come il granturco sulle braci.
In queste righe voglio riferire quello che un libro come L’America Latina del XXI secolo, di idee, di concetti, di interpretazioni, di vaste sintesi, non può e non riesce a dire: delle veloci annotazioni biografiche mescolate ad una manciata di perle aneddotiche che credo abbiano la forza di raffigurare la persona del professor Alberto Methol Ferré. Un pugno di sorprese, insomma; momenti inattesi spuntati nell’accalcarsi delle parole che si componevano in un ordine, fessure di “privato” che si aprivano nel disegno che intanto prendeva la forma di una architettura intellettuale coerente.
Come quando, alla fine di una “tirata” sugli avvenimenti che hanno marcato il secolo XXI, il professor Methol Ferré se n’è uscito dicendo che per lui “l’avvenimento degli avvenimenti sono stati i figli”. I suoi tre figli, Marcos, Lucas, e Pedro, avuti in età più che matura. O come quando, nel bel mezzo di un ragionamento sulla devastazione umana provocata dall’“ateismo libertino” anche in America Latina, il professore si allontana e torna con un foglio di quaderno. E’ un poema[1]. Lo porge con un certo pudore. Si intitola: “L’origine della realtà”. Mi dirà poi d’averlo scritto per un amico, un musicista che faceva ostentazione di nietzschianesimo e con cui aveva avuto una discussione. Il poema parla della vita come dono, della realtà come mistero buono, di un Dio che danza. Dopo averlo letto con intonazione vocale non proprio adatta alla declamazione (Methol Ferré è affetto da titubatio linguae, tartaglia, per intenderci), rivela di avere scritto altri poemi quand’era ragazzo; rime, che il padre aveva fatto pubblicare e che per questo – dice – da quel momento in poi non ha più voluto scrivere. Ma la considerazione della poesia come accesso privilegiato alla verità Methol Ferré non l’ha mai persa.
Un giorno ha portato il discorso su un gruppo di pensatori della tradizione tomista verso i quali nutriva ammirazione. Ad un certo punto del discorrere butta lì una frase, in cui equipara teologia e poesia. Capisco che sta per aprire una finestra metaforica. Prosegue parlando della ultimidad della poesia – del suo ultimo, radicale carattere rivelativo – ribadendo che essa, la poesia, è capace di penetrare la verità in modo più inequivocabile di quanto sappia farlo la ragione raziocinante. Chiedo spiegazioni. Methol Ferré introduce la parola mistero, non come un concetto fumoso, bensì come termine rigoroso che designa la sostanza della realtà, il reale del reale, per poi concludere che esso, il mistero ultimo, eterno e contingente, primo e concreto, il mistero che vive e dà significato ad ogni cosa, è accessibile alla poesia più ancora che alla teologia. E’ un atto estetico, di devozione alla bellezza – spiega- quello che più potentemente mette l’uomo in relazione con il mistero, dunque con la verità.
Che cosa singolare per una mente così raziocinante, sempre alla ricerca della «mappa dei fiumi sotterranei della storia che sola permette di capire l’attualità»!
Alberto Methol Ferré è nato nel marzo del 1929, quando l’Uruguay godeva della prosperità che gli derivava dalla ricostruzione post-bellica europea. Anni d’oro, con i box del porto di Montevideo che si riempivano di granaglie, i container stipati di carne che attendevano di essere imbarcati verso i porti del Vecchio Mondo che cercava di rinascere. Benedetto piano Marshall, che a queste latitudini ha significato commercio e ricchezza! «Pradera, puerto y frontera», per usare la fortunata immagine con cui Reyes Abadie[2] ha fotografato il destino prospero della nazione più piccola dell’America del sud. E benedetto porto! Perché al porto gli uruguayani devono tutto!
La vita di Methol Ferré ha avuto molto a che fare con il porto. Dell’Amministrazione generale del porto di Montevideo è stato alto funzionario per molto tempo, nonché membro dell’Accademia di storia marittima e fluviale dell’Uruguay. Dal porto si ritira nel 1988 con la carica di vice-direttore, dopo aver solidarizzato con uno sciopero generale contro il golpe militare, quando non era salutare farlo. I porti, si sa, sono dei crocevia formidabili, delle frontiere d’acqua. Di genti, di idee, di traffici. Nei porti i confini sono sempre in movimento. Vero è che il pensiero di Methol Ferré si è staccato rapidamente dal minuscolo pezzo di America Latina chiamato «rio dei pesci» in lingua guaranì, per veleggiare verso orizzonti lontani: la cultura francese, quella spagnola di fine ottocento, la tedesca. Methol Ferré s’imbeve della prima nel Liceo francese di Montevideo; la seconda la coltiva nel corso degli studi superiori; la terza – la fase della germanizzazione filosofica, come la chiama – avviene per mano di Ortega y Gasset. Methol Ferré assimila e immagazzina tutto con singolare proclività negli anni della gioventù, torna a ruminare il pensiero del novecento spagnolo e germanico nella maturità. Tutto come autodidatta, un autodidatta della conoscenza, un divoratore di libri avido e insaziabile, un sintetizzatore incline alle grandi visioni geopolitiche. Ascoltandolo non è facile credere che si sia inoltrato da solo nel mondo dei classici francesi, spagnoli e tedeschi; un uomo di frontiera che scopre i classici più che un classico che si sforza per raggiungere la frontiera. Che un laico, poi, sostenga una tradizione che molti chierici hanno in quegli stessi anni abbandonato, è uno di quei paradossi alla Chesterton che tanto apprezza: «A lui», ironizza, «sarebbe piaciuto che i laici salvassero San Tommaso dai chierici».
Nel 1955 Methol Ferré fonda una rivista che sin dal nome – «Nexo» – sintetizza un intero programma: creare, per l’appunto, nessi, vincoli tra nazione e nazione, intrecciare legami e storie tra pensatori di paesi diversi del Sudamerica. Una fiammata che dura tre anni. «Nexo» prima versione interrompe le pubblicazioni nel 1958. Sono gli anni di Eisenhower e Kennedy negli Stati Uniti, in Venezuela va al potere il partito Social cristiano di Rafael Caldera, si rafforza la potente Confederazione operaia in Bolivia, la Democrazia cristiana di Eduardo Frei pone fine ai governi conservatori in Cile, in Brasile si affermano le tendenze socialdemocratiche di Juscelino Kubitschek, Juan Domingo Perón è esule a Caracas, a Cuba la rivoluzione fa il suo ingresso a l’Avana, vittoriosa (primo gennaio 1959). Un avvenimento, quest’ultimo, di portata mondiale. «Cuba rappresenta il ritorno dell’America Latina sulla scena continentale come una questione unitaria, per la prima volta dopo il ciclo delle indipendenze nazionali», commenta Methol Ferré in queste pagine; «e Fidel Castro è il nome di maggior influsso, di più estesa ripercussione che mai ci sia stato nella storia contemporanea dei nostri paesi. Neppure Simón Bolívar, negli anni migliori della sua epopea, ha avuto l’impatto di Fidel Castro sull’insieme del continente».
Nel 1967 Methol Ferré viene invitato ad integrare la direzione di un’altra rivista: «Vispera». Dalle sue pagine Methol Ferré osserva e commenta il ribollire rivoluzionario dell’America Latina. Nel 1968 vi scriverà un articolo “pesante”, che smuove le acque già agitate dell’ambiente studentesco latinoamericano. Ernesto Che Guevara è stato assassinato da poco in Bolivia (1967). Methol Ferré percepisce con chiarezza il fallimento del progetto insurrezionale. La parabola del leader guerrigliero e la sua fine, rappresentano, ai suoi occhi, il prevalere di una politica di morte e la morte di ogni politica. Parole che nell’Uruguay degli anni settanta non possono essere pronunciate impunemente. Ma lui le dice e le scrive. Si rompono sodalizi, si lacerano amicizie di vecchia data. Methol Ferré non recede dall’analisi impietosa dei limiti della teoria del “foco” rivoluzionario. Assiste al tentativo insurrezionale dei tupamaros in Uruguay con sgomento. Presente l’esito nefasto: spianare la strada alla dittatura militare.
E’ una pagina della sua vita su cui conviene attardarsi. Dicevamo del porto. Se difficile è pensare Methol Ferré autodidatta – «un tomista silvestre» dice di se stesso, «senza accademia e seminario» – ancora più arduo è immaginarlo nelle vesti di portuale. Solo un racconto particolareggiato convince che nel porto c’è stato veramente e vi ha lavorato per ben trentaquattro anni, ad iniziare dal 1954. Siamo nel 1971, lo storico bipolarismo politico uruguayano che contrappone blancos e colorados mostra i primi segni di crisi. Le elezioni sono alle porte. Un terzo raggruppamento scende in campo: il Frente Amplio, un’ alleanza di democristiani di sinistra, socialisti, comunisti, settori blancos e colorados dissidenti dai rispettivi ceppi politici. La prova elettorale premia la nascente terza forza. Una quinta parte dell’elettorato fa proprio il programma della neonata formazione politica di sinistra. Intanto l’attività dei tupamaros si intensifica, come pure la repressione dell’esercito. E’ un crescendo di azioni e reazioni. Il colpo di stato è alle porte. Nel settembre del 1971 le forze armate uruguayane assumono la conduzione della lotta anti-sovversiva. Poco dopo viene approvato un decreto che legittima la segretezza delle operazioni militari. Si giunge alla dichiarazione dello stato di guerra interno, per poi, alla fine dell’anno, sospendere le garanzie individuali dei cittadini. Il 1972 è l’anno della sconfitta della guerriglia urbana. La macchina del golpe non si ferma, finché, il 27 giugno 1973 le camere vengono sciolte. La dittatura arriva anche in Uruguay. Nulla in confronto a quella Argentina, più asfissiante e mortifera, ma sufficiente a gettare il paese in un clima di sospetto. Detenzioni, chiusura di giornali (Ahora e Marcha nel 1974), censura anche per la Chiesa.
Methol Ferré guarda con dolore gli amici che prendono la strada della clandestinità. E’ toccato da vicino da lutti e arresti. Sono mesi di scioperi a ripetizione. Come altre centinaia di migliaia di uruguayani, Methol Ferré – alto funzionario del porto – vi aderisce. La reazione delle autorità non tarda ad arrivare. Gli impongono una sanzione amministrativa. Non l’accetta, convinto di essere nel giusto e di poter essere tutelato anche dalle leggi vigenti. Viene istruito un procedimento disciplinare a suo carico; il risultato è una sospensione di sei mesi senza stipendio. Gliela notificano; lui non l’accetta. Rinuncia al posto di dirigente portuale, a quei tempi più che onorevole, per un incerto futuro da libero intellettuale.
A «Vispera» collabora assiduamente fino al 1975. Quanto basta per accrescere la propria autorità nel mondo intellettuale cattolico latinoamericano ed essere notato dalla gerarchia ecclesiale del continente. Nel 1969 gli giunge la proposta di integrare il Dipartimento per i laici del CELAM. E’ il primo “secolare” a far parte di un organismo squisitamente ecclesiale, con responsabilità sull’America Latina. Inizia un’ epoca di viaggi, incontri, seminari, pubblicazioni. La II Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano è alle porte. Si tratta del momento collegiale per eccellenza di tutta la Chiesa del continente. Un momento di unità, per l’unità. «In ambito cattolico, gerarchico soprattutto, non era affatto normale “pensare” l’America Latina come un tutt’uno, riferirsi ad essa come ad una sola realtà», ricorda Methol Ferré. «Un vescovo era prima di tutto peruviano, argentino, messicano, cileno; il suo orizzonte si esauriva all’interno dei confini nazionali». Sorgevano le prime istituzioni specificamente latinoamericane: la Commissione economica per l’America Latina (CEPAL), la Banca interamericana per lo sviluppo (BID). L’interesse di Methol Ferré per l’insieme dell’America Latina, considerato esotico da certuni, veniva ad essere evidenziato come necessario dallo stesso processo storico. Viene convocato alle prime riunioni del Consiglio episcopale latinoamericano, diretto da monsignor Juan Sinforiano Bogarin, segretario il paraguayano Lucio Mayer. Le sue “due grandi passioni” -l’unità dell’America Latina e la Chiesa – possono essere poste al servizio di una buona causa, il CELAM, per vocazione e statuto “specializzato” in America Latina come una totalità.
Nel 1975, due anni dopo il colpo di stato in Uruguay, viene nominato membro dell’Equipe teologico-pastorale del Consiglio episcopale latinoamericano. La discussione con la Teologia della Liberazione è all’ordine del giorno in America Latina, e si fa serrata, tanto in ambiti istituzionali, che nelle sedi universitarie e sui giornali. Methol Ferré è critico severo di questa corrente di pensiero, che conosce a fondo anche per il rapporto personale con il suo esponente di maggior spicco, Gustavo Gutiérrez, anch’egli nello staff della rivista «Vispera». Methol Ferré rimarca così la sua distanza. «Per i teologi della liberazione il marxismo non è una filosofia, non è un sistema totale di comprensione della natura, dell’uomo e di Dio. E’ da loro considerato – e di conseguenza trattato – come un tentativo scientifico – alla maniera di Althusser – di conoscere la storia cercando di cogliervi le leggi relative al rapporto uomo-natura-senso. La fede, perciò, non ne sarebbe emarginata. Gutiérrez sostiene che la fede comunica con la scienza attraverso la mediazione dell’utopia, e che così non ci sarebbe giustapposizione, ma nella sua riflessione non si capisce cosa può significare la “mediazione dell’utopia”. Io penso, al contrario, che il carattere peculiare della scienza marxista risieda nella sua essenziale costituzione come filosofia materialista, anche quando vi si rintracci una immanenza del giudeo-cristianesimo». Ma allo stesso tempo riconosce il valore della teologia della liberazione, vedendovi «la reazione ad un tomismo accademico d’importazione». «La teologia della liberazione – scrive – si differenzia da tutta la teologia precedente per l’importanza decisiva che assegna alla situazione storica dell’America Latina; il che ha significato un urto benefico per le chiese latinoamericane, che in qualche modo erano largamente tributarie dell’influenza culturale europea». Propugna una teologia della liberazione che ha nell’argentino Lucio Gera il suo caposaldo e in Jorge Mario Bergoglio, allora giovane superiore dei gesuiti, un estimatore. Con Gera e altri Methol Ferré ha in comune l’accentuazione del tema della religiosità popolare, dei poveri, della cultura, della storia latinoamericana, e sviluppa un approccio più comprensivo della realtà latinoamericana.
In questi anni di intenso lavoro al CELAM si forma una vasta rete di amici in tutto il continente, dal Messico al Brasile, dalla Colombia all’Argentina, passando per il Venezuela, la Bolivia, il Cile e il Paraguay. I punti in comune: l’integrazione dell’America Latina, il legame con il popolo cattolico e i luoghi della religiosità popolare, una idea di cultura che pone al centro la visione cristiana dell’uomo, la rivalutazione della Dottrina sociale della chiesa in chiave antropologica e sociale, la percezione del nuovo avversario storico, non più l’ateismo dai connotati messianici ma un’ irreligiosità profonda, estesa e persuasiva, che Methol Ferré chiama con un termine di suo conio “ateismo libertino”. Confluisce tutto – e tutti – nel terzo summit della Chiesa latinoamericana, a Puebla de Los Angeles, in Messico, nel 1979. Monsignor Antonio Quarracino, divenuto Presidente del CELAM succedendo al colombiano Alfonso López Trujillo, sarà il suo grande amico ed estimatore.
Il Pontificato di Giovanni Paolo II è accolto con entusiasmo. Si intrecciano fili con il movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione, che dopo gli inizi in Brasile negli anni ‘60 comincia ad essere presente in quasi tutti i paesi dell’America Latina spagnola. Si intensificano le frequentazioni sui due lati dell’oceano. Methol Ferré viaggia in Italia, a Roma, per espletare la responsabilità di consulente del Pontificio consiglio per i laici, e sulla riviera adriatica per il Meeting annuale che si svolge nella città di Rimini. Collabora alla rivista italiana “Incontri”, una pubblicazione specializzata sull’America Latina legata al settimanale “Il Sabato”. Nel 1983 avviene il passaggio di testimone: da “Incontri”, che in Italia si trasforma in “30 Giorni”, a “Nexo”, che di “Incontri” eredita la giovane storia. Un’ impresa temeraria quella di “Nexo”, una rivista che vuole essere allo stesso tempo di militanza e dialogo. Significativamente la pubblicazione si richiama a «Latinoamerica», una gloriosa testata fondata dai gesuiti nel 1949. “Latinoamerica” termina il suo ciclo alla vigilia del Concilio Vaticano II, subito dopo la I Conferenza episcopale latinoamericana di Rio de Janeiro, nel 1955; “Nexo” nasce sull’onda della Conferenza di Puebla, vive gli anni del pontificato di Giovanni Paolo II, giunge fino alla vigilia del collasso del comunismo.
La rivista chiude nel 1989, mentre le crepe si allargano sul muro di Berlino. Methol Ferré continua il suo rapporto con il CELAM in qualità di consulente della segreteria personale di monsignor Antonio Quarracino, giunto nel frattempo alla sua seconda presidenza nell’organismo. In questo periodo conosce il gesuita Bergoglio, ed inizia a frequentarlo. Collaborerà con Quarracino alcuni anni ancora, fino alla IV Conferenza generale di Santo Domingo, nel 1992, coronando un ventennio di fecondo sodalizio.
Di nuovo in Uruguay, di nuovo nella sua casa sul porto, Methol Ferré riprende l’attività accademica a pieno ritmo: Storia della Chiesa, Storia dell’America Latina, Storia contemporanea mondiale del secolo XX, nell’Università Cattolica e in quella di Montevideo, corsi per diplomatici nell’Istituto Artigas del Ministero degli esteri dell’Uruguay. E prosegue in queste e altre sedi la battaglia per l’integrazione e il Mercato comune del sud (MERCOSUR), oggi meno solitaria che nel passato. Ad essa dedica innumerevoli articoli e conferenze.
Questo degli articoli è un altro aspetto singolare della personalità del professor Methol Ferré. Più di una volta mi sono lamentato con lui per la fatica di dover cercare i suoi scritti in lungo e in largo per l’America Latina. Per tutta risposta mi ha confessato candidamente che gli articoli, una volta messi su carta, le conferenze, dopo essere state pronunciate, i testi, una volta consegnati al committente, sono come bottiglie che si lanciano in mare. Le si affida alle acque e lì restano, in balia dei marosi, sballottate a destra e a manca come foglie secche. Se qualcuno le avvista, «se qualcuno se ne interessa», è stata la sua conclusione, «posso dirmi fortunato». Fedele a questa convinzione bizzarra, non ha mai compilato delle raccolte, non si è dato da fare per ottenere la pubblicazione di testi; le riedizioni esulano completamente dalle sue preoccupazioni. Della pubblicazione dei suoi scritti – articoli, quaderni e finanche libri – se ne avvede se qualcuno glieli mostra o gliene parla. Quando la bottiglia, insomma, raggiunge un qualche porto ed il contenuto viene portato a contatto con l’aria di mare.
Ancora una metafora marina. Ancora un porto di mezzo. Methol Ferré è vissuto sino alla morte nella stessa casa con vista sul molo di Montevideo, più esattamente nella grande stanza a piano terra che rigurgita di libri. Pile di libri disposti senz’ordine e senz’altra geometria che quella di disegnare degli stretti corridoi che permettono i movimenti da un muro all’altro. Libri accatastati a terra, libri appoggiati in equilibrio precario su alcune sedie, libri messi di taglio contro il perimetro della parete come le pietre di un giardino. Migliaia di libri che occhieggiano dall’alto di pile dondolanti rilasciando l’inconfondibile odore della carta sfibrata dal tempo.
Una volta gli abbiamo chiesto quali porterebbe con sé, se avesse dovuto scegliere precipitosamente di doversene portar via qualcuno. Ha resistito prima di rispondere. Probabilmente lo turbava l’idea di doversene separare. «Me ne porterei via molti», ha risposto incalzato. Quelli di Ortega y Gasset, in primis, dalle cui pagine è stato introdotto ai grandi temi dell’America Latina; quelli dello spagnolo Unamuno, del russo Berdiaev, del tedesco Scheller, a cui deve l’incontro con la grande tradizione cristiana e le sue parole chiave. Poi le opere di Gilbert G. Chesterton, l’autore a cui lega la conversione vera e propria, alla fine del 1949. «Ho capito da lui che l’esistenza è un dono, come la salvezza e la fede; che si è cristiani per gratitudine». Cristiano per gratitudine. Non sorprendeva più di tanto sentirglielo dire. Di Methol Ferré colpiva l’allegria e il buonumore. «Da quando ho scoperto che la Chiesa è una realtà di uomini lieti, sessant’anni fa, la vita mi sembra sempre una novità sostanziale». Non si sarebbe neppure dimenticato di raccogliere i testi di Gilson e quelli di Lucio Gera. Le opere di Haya de la Torre e gli scritti di Juán Domingo Perón avrebbero trovato certamente posto nella sua valigia; ad entrambi, infatti, si sentiva debitore quanto a visione politica, «per la lungimirante battaglia per l’integrazione e l’industrializzazione dell’America Latina che hanno condotto», ebbe a precisare. E le opere di Augusto Del Noce. Il filosofo italiano ha rappresentato l’ultima influenza sulla sua maturità intellettuale.
Questa del rapporto con Del Noce è una pagina che prima o poi converrà esplorare con più abbondanza di dettagli di quanto riusciamo ad anticipare in queste succinte note biografiche. Le sintonie col Del Noce filosofo le ha indicate in queste stesse pagine. Quelle sul piano umano le annotiamo in rapida successione. L’ha conosciuto personalmente nel 1982. L’antefatto risale alla terza Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano. Nella bella città di Puebla i conciliaboli tra i partecipanti sono all’ordine del giorno. In un momento dei lavori domanda ad un caro amico, il dott. Guzmán Carriquiry, un suo connazionale da molti anni a Roma, in Vaticano, quale filosofo cattolico italiano fosse meritevole di considerazione. Gli viene fatto il nome di Del Noce. Il dott. Carriquiry torna in Italia e di lì a poco gli invia “Il suicidio della rivoluzione”. Il vaticinio rigorosamente fondato del suicidio delle rivoluzioni basta per accendere l’interesse di Methol Ferré. Un interesse assecondato dal destino. «Caso volle», ricorda a distanza di anni, che visitassi la casa di un sacerdote, un biblista uruguayano tornato da poco dall’Italia. Guardando nella sua biblioteca, mi cade l’occhio su “Il problema dell’ateismo”». Glielo chiede in prestito. «Mi genera un vero shock intellettuale. Per un mese continuo a leggerlo ininterrottamente, notte e giorno, a sottolinearlo ad ogni pagina». Methol Ferré scrive una lettera per Del Noce; la invia all’amico Carriquiry con la preghiera di fargliela avere. La lettera giunge a destinazione. «Ho saputo poi che quando Del Noce l’ha letta, camminava e diceva: “Miracolo! E’ incomprensibile che un tipo che vive in Uruguay mi abbia capito tanto”».
E torniamo all’inizio, a come abbiamo aperto queste note. Gli anni di Puebla sono stati i più intensi nella vita di Methol Ferré. E’ in questo periodo, come abbiamo scritto nel prologo, che il cammino di Methol Ferré si incrocia con quello dell’odierno Papa. Il rapporto tra i due, personale e intellettuale, si intensifica nelle riunioni preparatorie all’appuntamento messicano. Era convinzione condivisa da entrambi che la Chiesa latinoamericana dovesse esercitare una intelligenza del tempo che le toccava vivere. Quale realtà umana peculiare all’interno degli stati e nel mezzo dei loro popoli, aveva il dovere di capire il momento storico del mondo e dell’America Latina in esso. Alla stregua di Paolo VI Methol Ferré considerava la Chiesa un popolo, «un’ entità etnica sui generis». Citava, per rendere il concetto, la Lettera a Diogneto, dove l’ancora oggi anonimo autore osservava che «I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini (…) non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale… partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri». Fino all’osservazione finale: «Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi… A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani[3]».
Nella bipolarità di “sottomissione allo stato” e “cittadinanza di un’altra città” affondava le radici il dovere, per la Chiesa, di esercitare l’intelligenza del proprio tempo. La valutazione storica della natura degli stati e delle relazioni tra di essi, la conformità del loro esistere rispetto all’essenza che ne giustifica l’operare, la posizione che assumono in ordine al popolo che rappresentano, tutto questo per Methol Ferré era parte della missione fondamentale della Chiesa in quanto popolo di Dio in cammino nella storia. Methol Ferré ha realizzato una intelligenza del tempo dell’America Latina. Il suo «pensiero acuto e creativo» ha detto di lui papa Francesco «sapeva guardare con prospettiva tanto alle radici come verso le utopie, e questo lo convertiva in un uomo fedele alla realtà dei popoli».
[1] EL ORIGEN DE LA REALIDAD.
Dato, Don, Regalo/a la comunidad humana es la realidad/Fluidez del agua el amor/Encierro sobre si, el granizo/Natacha decía que sólo podía creer/en un Dios que supiera bailar Pobrecito !/No supo que todos los santos/bailan con Dios los bailes más insólitos/y esto también querría el granizo/Lo aprendí de un poeta francés hace muchos años/Una vez, en el Café Sorocabana/en el kilómetro cero de la Plaza Libertad,/el Tla Invernizzi me lanzo molesto/¿ Que es esto del Infierno ?/Le respondí: la infructuosa lucha/de granizo contra y por el agua/Por eso baila y golpea y por esto sólo, con el Tola quedamos amigos para siempre/Aunque casi, ni nos vimos mas.
[2] Washington Reyes Abadie, uruguayano, uno dei maggiori storici dell’America Latina, fondatore, con Methol Ferré, della rivista «Nexo». Scomparso nel settembre del 2002.
[3] Si tratta – forse – di un’opera posteriore all’inizio del secolo II e anteriore al 313; molto probabilmente è precedente a Origene, o allo stesso Clemente Alessandrino. Si ritiene con buon fondamento che il luogo di composizione del testo – un discorso con tutta probabilità, pronunciato o destinato ad esserlo – sia la città di Alessandria.