Il termine scelto nel testo dell’Accordo Finale suona freddo: “riconoscimento di responsabilità”, ma quel che c’è dietro, e ciò che implica un tale riconoscimento, ha una portata dalla quale dipenderà il futuro stesso della pacificazione che con il D-day di Cartagena de Indias non si conclude ma inizia. Per rendersene conto basta riandare ad alcuni giorni fa, quando un gruppo importante di dirigenti della guerriglia si è incontrato per la prima volta con familiari degli 11 deputati sequestrati nel 2002 ed assassinati a sangue freddo 5 anni dopo. Un incontro che la rivista colombiana Semana ha definito “commovente”, in cui dolore e vergogna si sono mescolati con le lacrime. Le Farc, scrive Semana, hanno per la prima volta mostrato un lato sconosciuto, accogliendo i reclami, anche violenti, delle vittime ed assumendosi in pieno le loro responsabilità. Pablo Catatumbo, l’uomo che comandava il blocco delle Farc che commise il crimine ha pronunciato parole che rimarranno tra i gesti più importanti di questi mesi: “Non fuggiremo le responsabilità. Erano nelle nostre mani, e non si può riparare l’irreparabile, si tratta di risarcire il danno, che è un’altra cosa. La morte dei deputati è stata la cosa più assurda che ho dovuto vivere in guerra, l’episodio più vergognoso, non ne siamo orgogliosi. Oggi, con sincera umiltà, chiediamo perdono. Speriamo possiate perdonarci”.
Un passo enorme se si pensa che appena nel 2012, negli incontri di pace che prendevano forma ad Oslo, in Norvegia, “Timochenko” e altri capi affermavano che non avrebbero chiesto perdono perché, per loro, non c’era niente di cui vergognarsi. Lo ha sottolineato bene il politico conservatore Óscar Tulio Lizcano, lui stesso sequestrato in passato dalle Farc: il perdono “E’ una virtù politica che permette alla società di assimilare il passato e guardare al futuro”.
L’incontro dei capi delle Farc con i familiari è durato quattro ore e si è concluso con l’impegno dei guerriglieri di raccontare ai famigliari tutta la verità sull’accaduto e di riconsegnare gli effetti personali delle vittime. Alla fine, tutti si sono uniti in preghiera, in quella che i famigliari hanno definito “un sollievo ed una catarsi collettiva”.
Il giorno dopo si è svolto un altro incontro emblematico e di grande importanza, quello con delegati del quartiere La Chinita (La cinesina) di Apartadó, nel nord ovest del paese. Lì, la guerriglia commise un massacro indiscriminato contro 35 persone: e anche lì ci sarà un atto per chiedere perdono.
Poi è arrivato il turno dei massimi esponenti dello Stato colombiano e della guerriglia. Perché in un accordo di pace il perdono e la riconciliazione non possono essere a senso unico. Prima Iván Márquez, l’uomo delle foto nell’accordo siglato all’Avana, ha registrato un video in cui riconosceva che i sequestri hanno causato “un grande dolore” nelle famiglie e nella società, aggiungendo che quelle pratiche devono rimanere “sepolte per sempre”. Quindi è stata la volta del presidente Manuel Santos, che ha usato la parola “sterminio”, quasi un sacrilegio per la parte più intransigente dei settori anti-accordo, impegnandosi a fare in modo che la storia non si ripeta mai più. Un altro gesto storico che implica la tacita ammissione che anche lo Stato è stato corresponsabile della degradazione del conflitto. Un gigantesco passo avanti: fino a poco tempo fa le atrocità commesse dai militari venivano minimizzate attribuendole a “mele marce” presenti nell’esercito.
C’è un elemento fondamentale che funge da garanzia per scongiurare il rischio che il perdono rimanga un mero esercizio retorico o di opportunismo: il fatto che negli accordi è comunque previsto un Tribunale per la Pace, conformato da 20 magistrati colombiani e 4 stranieri incaricato di indagare, giudicare e punire tutti coloro che si sono macchiati di gravi delitti durante il conflitto, senza distinzioni e senza sconti, siano essi guerriglieri, militari e membri di gruppi illegali.
LEGGI ANCHE: