La recente ondata di attentati che ha sconvolto l’Europa occidentale, quasi tutti riconducibili a una comune matrice jihadista, ha offerto nuovi argomenti a quanti nell’attuale situazione internazionale vedono i segni di un conflitto di civiltà o di una vera e propria “guerra di religione”. Un’interpretazione, quest’ultima, che sembra tuttavia non tenere conto di numerosi aspetti. Innanzitutto le attuali agenzie del Terrore, cresciute negli ultimi anni grazie all’appoggio finanziario delle petro-monarchie del Golfo e alla complicità di tanti attori occidentali (Stati Uniti in primis), difficilmente possono pretendere di rappresentare “l’islam”. È d’altra parte innegabile – e lo hanno sottolineato in questi mesi autorevoli osservatori – che una lettura fondamentalista del Corano come quella propagandata da tanti imam, anche in Occidente, continua a rappresentare una pericolosissima riserva ideologica per tale fenomeno. Un dato di realtà, questo, rende sempre più profetiche col passare del tempo le parole pronunciate da Benedetto XVI nel celebre discorso di Ratisbona, nel settembre 2006.
Se è arduo individuare in un esercito di killer semi-professionisti l’espressione di una “religione” (pur con i caveat sopramenzionati), ancora più difficile è pensare che i destinatari dell’azione terroristica dello Stato Islamico – almeno quelli occidentali, dato che in Medio Oriente a cadere sotto le bombe dei jihadisti sono sia i cristiani sia i musulmani – possano nel loro insieme rappresentare una religione. Piaccia o non piaccia, l’idea di un’Europa “cristiana” come quella ancora immaginata da alcuni cattolici – presentata dai proclami dello Stato Islamico nei tratti deformi di un’Europa “crociata” – non regge più alla prova della realtà. Certamente il cristianesimo è e rimane l’elemento fondamentale che, insieme ad altri, ha plasmato storicamente il volto dell’Europa e dell’intero Occidente, cosa che solo un folle o un ignorante (come qualcuno dei burocrati che affollano le istituzioni comunitarie europee) potrebbe negare. Occorre d’altronde chiedersi quante delle vittime cadute a Parigi, Bruxelles, Nizza e Monaco di Baviera si sentissero ancora partecipi di questa storia. Se si eccettua il recente martirio di padre Jacques Hamel, che rappresenta un vero e proprio salto di qualità della minaccia jihadista dal punto di vista simbolico e politico, le vittime degli ultimi assalti in terra europea non sono state colpite mentre partecipavano a manifestazioni religiose, ma mentre si trovavano in un fast-food o mentre guardavano uno spettacolo sul lungomare. Di queste persone, probabilmente solo una sparuta minoranza (in linea con quanto le statistiche mostrano da tempo) si sarebbe definita “cristiana”. Lo stesso dicasi per i giovani trucidati al Bataclan di Parigi lo scorso novembre.
Se tutto questo è vero, è difficile allora non concordare con papa Francesco quando afferma che non ci troviamo di fronte a una guerra di religione. Il continuo riferimento al jihad presente nei proclami degli aspiranti terroristi e nelle prese di posizione dello Stato Islamico (si pensi ad esempio agli attacchi contro il pontefice pubblicati sull’ultimo numero del periodico “Dabiq”) ha spinto d’altra parte alcuni, non senza ragione, a parlare di una “guerra di religione asimmetrica”.
Lasciando per un momento da parte lo Stato Islamico e allargando la prospettiva alla storia culturale e religiosa, occorre riconoscere che sono molte le “asimmetrie” presenti nel rapporto tra l’islam e il cristianesimo per come si è disegnato attraverso i secoli. È questo il cuore della riflessione che lo storico Jean Meyer ha proposto nel gennaio scorso sulla rivista messicana “Nexos”, a testimonianza dell’interesse che questi temi suscitano anche in America Latina. Se nell’attualità e nella storia recente la prima e più evidente asimmetria è l’assenza di reciprocità per quanto riguarda la libertà di culto “degli altri” – accettata e praticata nei Paesi a maggioranza cristiana e (in passato) nelle colonie europee in Africa e in Medio Oriente, ancora negata invece in molti Paesi a maggioranza islamica – guardando alla storia, soprattutto medievale, la principale asimmetria che individua l’analisi di Meyer è di tipo “conoscitivo”: la religione musulmana è stata cioè studiata e analizzata criticamente dal mondo cristiano più di quanto ciò sia accaduto per la religione cristiana nel mondo islamico. Teatro di un’ampia e significativa produzione filosofica e apologetica cristiana sull’islam sono stati in particolare la Siria e il bacino mesopotamico, dove tra il VII e il X secolo la convivenza tra musulmani e cristiani fu decisamente meno conflittuale che altrove. Agli occhi di autori quali il siriaco San Giovanni Damasceno (676-754), Padre della Chiesa e primo segretario del califfo Abdelmalek, l’islam appariva come una delle tante eresie presenti nella regione (già attraversata dal conflitto tutto interno al cristianesimo tra melchiti da una parte e monofisiti e nestoriani dall’altra). A tale eresia, pur essendo ritenuta dottrina di un “falso profeta”, San Giovanni Damasceno riconosceva tuttavia il merito di riflettere alcune verità cristiane, oltre che di aver allontanato gli arabi dal paganesimo e dal politeismo. Gli aspetti che invece gli apparivano maggiormente critici nel confronto con l’islam riguardavano la riflessione sul libero arbitrio e sulla predestinazione, presentata dal Corano in termini assai contraddittori, e quella sulla natura divina di Cristo.
Dopo aver presentato brevemente la posizione di alcuni esponenti della corrente di pensiero inaugurata dal santo siriaco, Meyer si sofferma nel suo scritto su un altro caso particolarmente significativo, quello dell’imperatore bizantino Emanuele II Paleologo, il quale ebbe l’occasione di confrontarsi durante un soggiorno di quasi due anni ad Ancira (l’attuale Ankara) con un dotto musulmano, desideroso di conoscere la religione cristiana. Le conversazioni furono trascritte dallo stesso Emanuele II tra il 1394 e il 1402. A partire da un confronto tra le tre leggi (quella di Mosé, quella di Gesù e quella di Maometto), il basileus di Costantinopoli considerò insieme al suo interlocutore il tema del jihad, da cui secondo il Corano deriva la necessità di scegliere tra la conversione all’islam, la morte o la schiavitù. Tutto questo, secondo l’imperatore, non poteva essere conforme alla volontà di Dio, che non ama l’effusione di sangue e mira ad attrarre a sé l’uomo con la persuasione e non con la violenza. Non agire secondo ragione è infatti contrario alla natura di Dio. Proprio questo passaggio del discorso del Paleologo, come si ricorderà, è stato ripreso a Ratisbona da Benedetto XVI, suscitando reazioni anche molto violente in parte del mondo islamico. Nel presentarlo, Meyer insiste sulla buona volontà che animava tanto l’imperatore quanto il dotto musulmano, il che però non impedì che entrambi rimanessero alla fine del confronto sulle rispettive posizioni di partenza.
Il terzo e ultimo esempio di intellettuale cristiano impegnato nel confronto con l’islam citato da Meyer è quello di Niccolò Cusano (1401-1464), vescovo di Bressanone, legato papale e cardinale, considerato il padre della filosofia moderna in Germania. A differenza dei due precedenti modelli, Cusano non aveva esperienza diretta dell’islam, dal che proveniva anche una minore conoscenza del Corano. Ciò nonostante, nel 1453 – in corrispondenza con la caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi – egli scrisse un trattato, De pace fidei, nel quale si trovava formulato in forma allegorica l’auspicio che i musulmani, che già condividevano la fede in un unico Dio, potessero riconoscere la divinità di Gesù Cristo. Anche Cusano, come il Paleologo, si mantenne su un piano essenzialmente razionale, rifiutando la prospettiva di un confronto armato tra le due fedi. La sua buona volontà verso i musulmani, d’altra parte, rischiò secondo Meyer di allontanarlo pericolosamente dagli ebrei, presentati nel trattato come ancora più refrattari a riconoscere la vera natura del Figlio di Dio rispetto ai seguaci di Maometto.
Dopo questa panoramica lo storico passa allo stato attuale dei rapporti tra cattolicesimo e islam, definiti sul piano teologico dalla dichiarazione conciliare Nostra Aetate, di cui ricostruisce brevemente il processo redazionale. Il giudizio di Meyer sul magistero conciliare e su quello successivo, in materia di rapporti con il mondo islamico, appare lapidario: si tratta di testi (Meyer cita anche la prima enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam e i discorsi pronunciati da Giovanni Paolo II ad Ankara nel 1979 e a Casablanca nel 1985) che a suo avviso non vogliono vedere la realtà delle opposizioni insanabili tra le due confessioni religiose, per un eccesso di buona volontà. Il tentativo di ottenere da parte dell’islam una reciprocità di trattamento con i cristiani in termini di libertà religiosa – tentativo che ha animato gli sforzi di Wojtyla, Montini e Ratzinger – si è rivelato illusorio, esprimendo un’istanza di per sé legittima sul piano del diritto internazionale, ma manifestando allo stesso tempo per Meyer “l’ignoranza di ciò che l’islam è nel suo territorio” [“la ignorancia de lo que es el islam en su tierra”]. Quanto sta ora accadendo in Medio Oriente – ma anche in Africa e in Pakistan – richiede secondo lo storico francese uno sforzo intellettuale di chiarificazione da parte del mondo cristiano, a cominciare da Roma. Al di là dei risvolti più tragici e violenti dell’attualità, Meyer sottolinea la distanza esistente tra la teologia e l’antropologia che nascono dal Corano e quelle che sono nate dai vangeli, perché “il fatto che il Corano sia monoteista, affermi una discendenza da Abramo e menzioni Gesù con il nome di Isâ, non fa dell’islam una specie di variante del cristianesimo”. [“Que el Corán sea monoteísta, afirme una filiación con Ibrahim y mencione a Jesús bajo el nombre de Isâ, no hace del islam una especie de variante del cristianismo.”]