Ricordare don Giacomo significa per me raccontare la mia vita. Quando lo incontrai la prima volta avevo 20 anni e frequentavo il secondo anno della facoltà di Scienze politiche a La Sapienza di Roma. Era il 1972. Tra il romanticismo utopico del maggio francese e gli incubi grigi degli anni di piombo. Eskimo e capelli lunghi, avevo aderito alla cellula “anarco-cristiana” fondata da Saverio Allevato (i cui membri in realtà eravamo solo noi due!): non tiravamo bombe però, eravamo piuttosto innocui, al massimo vendevamo in facoltà il giornale degli anarchici “Umanità nova”; nelle assemblee studentesche Saverio citava le massime di Bakunin e il film su San Francesco della Cavani, io ero attratto dal Gesù apocrifo cantato da Fabrizio de André, ma avevo rotto da tempo – e pensavo per sempre – i ponti con la Chiesa. Non ne capivo più il perché.
Don Giacomo aveva 26 anni. Un prete ragazzino. Non perse tempo a contestare le nostre idee ingenue. (Un po’ anarchico in fondo lo era pure lui). Ci trovammo risucchiati nel turbinio della sua umanità. Come quando vedi passare un treno meraviglioso, resti a bocca aperta, ci sali su, senza pensare ai bagagli che non hai avuto il tempo di fare e a dove quel treno ti porterà. La nostra vita fu messa sotto sopra. Tutto quello che di meglio avevo sognato per me e per il mondo sembrava improvvisamente diventare esperienza di vita. Qui ed ora. Lo stupore di un incontro: non potevate scegliere titolo più giusto per questo vostro convegno.
Quel treno mirabolante ci ha portato, dopo anni di viaggio e alcune giravolte drammatiche, a scoprire di più la verità della vita. Ci ha portato a scoprire che la verità della vita è racchiusa in uno sguardo. Nella coscienza dolorosa del limite (non saper voler bene, non saper essere felici) abbracciata dallo sguardo rigenerante di un Altro (con la A maiuscola). Ecco, don Giacomo ci ha fatto vedere quella che, commentando più tardi Agostino, lui stesso definiva l’”attrattiva amorosa della Grazia”. Vedere. Prima l’abbiamo vista, poi con il tempo abbiamo appreso il suo nome. Vista: in tanti volti, in tante storie tristi o liete. E alla fine abbiamo anche capito che il vero capo macchinista di quel treno meraviglioso non era lui, don Giacomo, ma il buon Dio che tramite lui e quello che da don Giacomo era nato o che lo aveva preceduto, stava ben saldo ai comandi.
Fra i tanti straordinari incontri vissuti durante il lungo viaggio iniziato nel 1972 c’è sicuramente quello con Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. Avvenne una trentina di anni dopo. Ne fu strumento la rivista internazionale 30Giorni, di cui don Giacomo fu l’anima ispiratrice e di cui Bergoglio era affezionato lettore. In particolare a farci scoprire il nuovo arcivescovo di Buenos Aires fu un reportage realizzato da Gianni Valente in Argentina, fra i sacerdoti delle “villas miserias”. Il feeling fra don Giacomo e ‘padre Bergoglio’ fu immediato. Io ebbi la fortuna, con altri, di esserne testimone. Potrei raccontare tanti episodi. Qui ne riferisco solo uno. Inedito. A partire dal 2006 tenevo con molta semplicità una corrispondenza via mail con il cardinale di Buenos Aires. Lo avevo conosciuto l’anno precedente e ne rimasi subito folgorato. Con lui condividevo i testi di alcuni miei articoli per il settimanale Vita o link a servizi che realizzavo per la tv (all’epoca lavoravo al tg2).
Il 25 gennaio 2007 gli inviai una mia recensione al libro di don Giacomo su Sant’Agostino “Il cuore e la grazia”, da poco pubblicato da Città nuova editrice. La risposta mi arrivò cinque giorni dopo. Scrisse che aveva ricevuto la copia del libro e che si apprestava a leggerlo. La mia recensione gli era piaciuta. Ne trasse alcuni spunti per riflettere sulla forza del pensiero “tensionante” di Agostino (aperto alla Grazia) rispetto a quello “lineare” della teologia scolastica (preoccupata di chiudere tutta la realtà in categorie intellettuali). In particolare padre Bergoglio si soffermava su questo brano del libro di don Giacomo che avevo evidenziato nel mio articolo: “Sant’Agostino arriva a dire, seguendo san Paolo, che tutta la dottrina cristiana senza la delectatio e la dilectio è lettera che uccide. Non è la cultura, neppure la dottrina cristiana, che può stabilire un rapporto con un uomo per il quale il cristianesimo è un passato che non lo riguarda. E’ qualcosa che viene prima. Questo qualcosa che viene prima sant’Agostino lo chiama delectatio e dilectio, cioè l’attrattiva amorosa della grazia”.
Bergoglio chiamava “pensamento lineal” quello che don Giacomo chiamava gnosi, ovvero la riduzione della fede cristiana a una conoscenza astratta, un discorso da possedere e applicare. Nella sua mail di risposta il cardinale mi scriveva:
“In questo pensiero lineare non c’è posto per la delectatio e la dilectio, non c’è posto per lo stupore. Ed è così perché il pensiero lineare procede nella direzione contraria alla grazia. La grazia si riceve, è puro dono; il pensiero lineare si vede in obbligo di dare, di possedere. Non può aprirsi al dono, si muove unicamente a livello di possesso. La delectatio e la dilectio e lo stupore non si possono possedere: si ricevono, semplicemente”.
Siamo, è bene ricordarlo, all’inizio del 2007. Dopo gli attentati alle Torri gemelle nel cattolicesimo sembrano affermarsi correnti intellettualistiche che propugnano come inevitabile lo scontro di civiltà con l’Islam e vorrebbero una Chiesa-istituzione severa con la modernità sempre e solo su alcuni temi morali (vita, famiglia, etc.) mentre molta maggiore indulgenza si è disposti a concedere quando si tratta di benedire guerre dagli esiti disastrosi in Medio oriente o teorie economiche liberiste che lasciano sul lastrico milioni di indigenti.
Don Giacomo aveva in mente anche queste derive ‘identitarie’ o ‘cristianiste’ quando rileggeva in una chiave di attualità il De Civitate Dei di Sant’Agostino. Nella recensione inviata a Bergoglio avevo sottolineato questo altro brano del libro di Tantardini:
“Una delle parabole evangeliche che Agostino più cita è la parabola della rete che raccoglie i cattivi e i buoni e che solo il giudizio ultimo separa. Perciò città di Dio e città dell’uomo non possono essere due istituzioni contrapposte… Non ci può essere per esempio la Chiesa contro l’islam… Non ci può essere un mondo cattolico contro un mondo non cattolico… perché i cittadini delle due città sono mischiati. Così all’inizio del De Civitate Dei Agostino dice che quando si parla ai nemici della città di Dio occorre sempre tener presente che, un istante dopo, toccati dalla grazia, possono diventare cittadini come noi, più degni di noi”.
Nella sua mail datata 30 gennaio 2007, da Buenos Aires, Bergoglio non solo mostra di condividere questa lettura anti manichea di Agostino. Ma la arricchisce con nuove suggestioni, tratte dal Vangelo:
“La parabola della rete con ogni tipo di pesce (che stanno assieme, poi si separano, ma fino al momento della separazione stanno assieme) bisogna leggerla assieme ad altre due parabole: quella del grano e la zizzania, e quella del pubblicano e del fariseo che pregano nel tempio. L’essenza manichea del fariseo non lascia nessuna fessura perché vi possa entrare la grazia; basta a se stesso, è autosufficiente, ha un pensiero lineare. Il pubblicano, al contrario, ha un pensiero tensionante che si apre al dono della grazia, possiede una coscienza che non è sufficiente ma profondamente mendicante”.
Questa la conclusione di Bergoglio, che certo toccava una corda sensibile anche in don Giacomo:
“San Paolo lo capiva quando si gloriava del suo peccato (era questa tutta la sua gloria). Poi, proprio da lì, fa il salto per gloriarsi nella Croce di N. S. Gesù Cristo. E, con umiltà, può confessare: “pero fui tratado con misericordia… para que Jesu Cristo demostrara en mí toda su paciencia” (cfr. 1Tim. 1: 12-15). In questo punto mi si spalanca il cuore e scopro che nella delectatio e nella dilectio c’è la pazienza di Gesù Cristo, la pazienza di Dio. Grande Mistero questo… “
Idee e riflessioni che confluiranno poi nella prefazione scritta dal cardinale Bergoglio al nuovo libro di don Giacomo “Il tempo della Chiesa secondo Agostino” edito da Città nuova. Era il 2009. Tre anni dopo don Giacomo moriva nella pace di Dio, stroncato da un male incurabile. Per pochi mesi non poté assistere all’elezione del cardinale argentino a vescovo di Roma.
*Intervento di Lucio Brunelli, direttore di TV2000, al convegno in ricordo di don Tantardini “Lo stupore di un incontro” promosso dalla diocesi italiana di Cassano allo Jonio il 26 giugno