Appena dopo l’elezione del pontefice, il testo curato da Bergoglio e risalente allo storico incontro tra Fidel e Wojtyla – Diálogos entre Juan Pablo II y Fidel Castro – è rispuntato fuori improvvisamente, come succede a volte con i reperti giudiziari, conferma una fonte diplomatica USA a Roma: «Dal Dipartimento volevano sapere se papa Francesco intendeva dare seguito a quei propositi o se era intenzionato a occuparsi della curia rimandando nel tempo un suo intervento sui Castro. Volevano sapere e capire in che modo avrebbe potuto tentare di influire su Cuba e sull’America Latina. Non volevano farsi prendere di sorpresa e bisognava studiare in anticipo le variabili».
Sulle prime nessuno è riuscito a rispondere con certezza. Anche i contatti americani presso la Segreteria di Stato, dove il cardinale Parolin stava avviando una garbata ma tenace ristrutturazione interna, non erano in grado di fare previsioni.
In ogni caso, la lettura del saggio è risultata rivelatrice. «L’importanza e il valore del dialogo stanno nel fatto, appunto, che la sua pratica rende possibile giungere alla verità fondata nel Vangelo. Il dialogo si oppone al monologo e conduce lo spirito nella ricerca della verità», scriveva Bergoglio. Si tratta dunque di un documento straordinario, perché di fatto già stabilisce le linee guida del futuro pontefice nel suo ministero petrino: «Il Papa non solo è un portavoce, una persona che trasmette la parola di Cristo, ma è anche colui che riceve la voce del mondo, della società umana. Il ruolo della Chiesa, in particolare del Vicario di Cristo, è quello di liberare, dialogare e partecipare, per costruire comunione tra gli uomini e la Chiesa». Perciò «il dialogo, inteso come canale di comunicazione tra la Chiesa e i Popoli, diventa uno strumento basilare per costruire la pace, promuovere la conversione e per creare fratellanza».
Precedendo gli esperti di affari internazionali, padre Jorge Mario preconizzava il futuro. Come se la stretta di mano tra Karol e Fidel avesse segnato un punto di non ritorno: «Così nel dialogo tra assenti, tra Giovanni Paolo II e Fidel Castro, il Papa ribadisce con fermezza la sua richiesta di libertà, dignità e democrazia per il popolo cubano, mentre Fidel Castro mantiene in alto la bandiera dell’uguaglianza di trattamento per Cuba nello scenario internazionale nell’ambito anche delle relazioni economiche. Pensiamo che il risultato di questo dialogo si è trasformato potenzialmente in realtà tangibili di fronte alla volontà di voler concedere che ha dimostrato Fidel Castro – per esempio con la liberazione di prigionieri politici – e di fronte al desiderio papale di promuovere la fine delle barriere imposte a Cuba da parte dei superpoteri».
Attenzione a quest’ultima parola. Il riferimento ai superpoteri è un atto d’accusa che rimane scolpito. E come l’abbiano presa gli americani, che l’hanno riletta alcuni mesi dopo l’elezione di Bergoglio, lo si può facilmente immaginare. Ma per l’allora arcivescovo argentino si trattava di una denuncia necessaria: «La ricerca della verità nel caso di Cuba non poteva essere portata a compimento, né poteva essere consacrata, senza un approfondimento del dialogo tra i due discorsi: quello di Fidel Castro e quello di Giovanni Paolo II. La missione del Papa e la recezione di Fidel convergono nella implementazione di nuove metodologie che si devono applicare nella trasformazione politica, da un lato, e in quella evangelizzatrice dall’altro».
A questo punto, il gruppo di osservatori guidato da Bergoglio analizza i modi, il linguaggio, perfino il tono usato dai due pesi massimi del XX secolo: Giovanni Paolo II appare desideroso di ascoltare «la verità del popolo cubano, del suo Governo, della Rivoluzione, della religione e dei rapporti tra Stato e Chiesa». In questa dinamica, Castro e Wojtyla hanno parlato e si sono reciprocamente ascoltati. «E così si sono viste divergenze profonde e in altri casi convergenze basilari.»
È a queste ultime che Bergoglio dà peso: «La Chiesa, intesa come struttura ecclesiale e come comunità di fedeli, «non agita bandiere ideologiche, non propone un nuovo sistema economico e politico». Semmai, «attraverso la parola del Pontefice, offre con la sua presenza, la sua voce e la sua missione un cammino per la pace, la giustizia e la libertà vere».
Infine, il passaggio che più avrebbe preoccupato gli analisti di Washington: «Il popolo cubano deve essere capace di capitalizzare la visita del Papa. Non tutto sarà come prima dopo la sua partenza. Getterà radici il dialogo tra la Chiesa e le istituzioni cubane e ciò si traduce sempre in benessere per chi ne ha più bisogno: il popolo». Per raggiungere questo obiettivo, «il popolo cubano ha bisogno di vincere quest’isolamento e perciò Giovanni Paolo II esorta l’anima cristiana di Cuba, e la sua vocazione universale, ad aprirsi al mondo e, al medesimo tempo chiama il mondo ad avvicinarsi a Cuba, al suo popolo, ai suoi figli, che sono senza dubbio la sua ricchezza più grande».
La posizione è chiarissima. Nessuno sconto al socialismo, che «ha commesso un errore antropologico, ritenendo l’uomo solo una parte del tessuto sociale, limitando l’importanza dell’essere umano alla sua posizione sociale».
E a chi vorrebbe una Chiesa che non ficchi il naso negli affari politici, il cardinale di Buenos Aires risponde ricordando «che il messaggio evangelico non si limita solo alla sfera del culto, della pratica religiosa, e che è sua missione illuminare tutto l’uomo (…) e ciascuna delle azioni umane». Per Cuba, dunque, come per altre nazioni, «occorrono piani per trasformare alcune istituzioni politiche, per sostituire regimi corrotti, dittatoriali o autoritari con governi democratici e partecipativi. La libera partecipazione dei cittadini nella gestione pubblica, la sicurezza del diritto, ormai sono requisiti imperativi, condizione necessaria per permettere lo sviluppo dell’uomo, di tutti gli uomini».
Rilette oggi, quelle parole sono rivelatrici di un orientamento che si rivelerà la chiave del successo diplomatico ed anche la cartina di tornasole che guida Francesco nelle relazioni internazionali.
Quando Bergoglio pubblicò le sue “riflessioni cubane”, nel 1998, i primi segnali di distensione lasciavano presagire un lento cambiamento nei tempestosi rapporti tra il gigante statunitense e la piccola roccaforte marxista. Tuttavia, due anni dopo, l’arrivo di George W. Bush alla Casa Bianca parve mettere una pietra tombale su ogni speranza: secondo i neoconservatori, che ora avevano preso le redini degli Stati Uniti, nessuna concessione andava fatta ai comunisti dell’Avana, che al contrario bisognava asfissiare con un rigido embargo economico. Ma la storia aveva in serbo delle grandi sorprese…