La magistratura messicana ha finalmente deciso di ascoltare la testimonianza del sacerdote Alejandro Solalinde, paladino dei diritti umani e direttore della “Casa del Migrante”, sul caso dei 43 studenti scomparsi un mese fa ad Ayotzinapa, in Messico. Il sacerdote – che già si era presentato in procura per denunciare quanto sapeva, senza essere ricevuto – nei giorni scorsi aveva lasciato poco spazio alla speranza: “Sono tutti morti” aveva detto, citando testimoni oculari e dando anche dettagli sulle modalità (bruciati, alcuni mentre erano ancora vivi). Il religioso, accompagnato dalla scrittrice Elena Poniatovska, ha consegnato ieri al procuratore le informazioni in suo possesso – ricavate da cinque testimonianze di gente del posto – dicendo che coincidono in buona parte (“all’80 per cento”) con quelle in mano agli investigatori.
Quasi contemporaneamente veniva annunciato il ritrovamento di nuove fosse – oltre alle 26 già scoperte con 28 corpi non identificati – contenenti resti umani, zaini, scarpe e matite e che potrebbero portare ad accertare definitivamente la sorte dei ragazzi.
Prima di Solalinde, due settimane fa la Chiesa messicana era già intervenuta nella vicenda, attraverso il vescovo di Acapulco, Carlos Garfias Merlos, il quale in una lettera aveva espresso tutto il “dolore della Chiesa Cattolica”, auspicando una legge che prevedesse l’indennizzazione delle famiglie delle vittime. “Le migliaia di crimini che si sono accumulati negli ultimi anni devono essere chiariti e si richiede la riparazione del danno per le loro famiglie”, aveva scritto.
Del resto la stessa Chiesa messicana è stata negli ultimi tempi fortemente colpita da sparizioni e uccisioni di sacerdoti. Già nel giugno del 2013 i vescovi della Provincia di Acapulco avevano denunciato le numerose violenze e intimidazioni. In tal senso, sacerdoti e studenti sono simili: entrambi vengono considerati dalle organizzazioni criminali come un contropotere minaccioso e quindi da far sparire, come ben spiegato dalla giornalista di Avvenire Lucia Capuzzi in un’intervista a Radio Vaticana.
La situazione è talmente grave che lo stesso settimanale dell’Arcidiocesi del Messico, “Desde la Fé”, il 12 ottobre scorso ha pubblicato un editoriale dal titolo che non lasciava spazio a fraintendimenti: “Nel paese delle carneficine”. In quell’editoriale i vescovi puntavano il dito contro l’incompetenza del governatore dello stato di Guerrero, Angel Aguirre (dimessosi in queste ore), sottolineando come in Messico “nessuno può dirsi al sicuro”, tanto che “bisogna iniziare a considerare questo sessennio (quello del governo di Enrique Peña Nieto n.d.r) come il più pericoloso in cui esercitare il ministero sacerdotale”.
Un altro prelato, il vescovo di Saltillo, Raúl Vera López, ha invece evidenziato la collusione tra le autorità ed il crimine organizzato. “Si ha l’impressione che il Messico sia una specie di pentola in ebollizione, dove è costante il disprezzo per le persone e l’abbandono in cui si trova la cittadinanza”, ha dichiarato.
L’editoriale concludeva: “L’impunità è la madre di ogni violenza ed ingiustizia, non ci sarà pace e concordia in Messico se non si inizia a far sì che i colpevoli di tutti questi orrori paghino per i loro crimini. Non si tratta di voglia di vendetta, ma di sete di giustizia”.