Nell’ Evangelii Gaudium in versione spagnola – cioè quella originale, essendo lo spagnolo di Castiglia la lingua del Papa regnante – c’è un espressione che mi ha sorpreso. «Che bello che i giovani siano “viandanti della fede”, felici di portare Gesù in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra! (n. 106)». Callejeros de la Fé appunto, tradotto in “viandanti della Fede” nell’edizione italiana dell’esortazione. Ed è la traduzione che effettivamente si avvicina di più dal punto di vista etimologico al suo omologo spagnolo-argentino. Il traduttore, va detto, non poteva fare di meglio, ma anche così l’espressione originale del Papa è più ricca e significativa: “calle” vuol dire via e il termine fa riferimento ai ragazzi che bighellonavano per le strade. Per questo quando l’ho letta, con la sorpresa mi si sono affollati anche tanti ricordi nella mente. Nella mia infanzia, sentirsi dire “callejero” non era molto incoraggiante , evocava un certo senso di abbandono. “Perro callejero” è il cane randagio, sporco, scacciato e preso a calci, ma libero, senza un padrone. Un “chico callejero” è uno che in generale è povero ed è sempre per strada a bighellonare (quando no a delinquere). Ma nonostante queste carenze materiali e spirituali tutti sognavamo di andare in giro a bighellonare al meno per un certo tempo, finché il morso della fame o il buio ci avessero spinti a tornare a casa. Anche se le nonne facevano di tutto per trattenerci in casa (e i nostri genitori fossero assolutamente d’accordo) noi volevamo andare in giro, callejar. Guardavamo fuori dalla finestra e la nostra immaginazione ci portava in posti lontani, dal marciapiedi all’altra parte della strada fino all’orizzonte ultimo che non potevamo neppure intravvedere. Quando tornavo a casa tutto sporco e spettinato, con le ginocchia spellate dopo una partita a calcio coi miei amici, la nonna Loige mi diceva: Jorgito, sembri un “callejero”! Nell’adolescenza sarebbe stato diverso. La scuola stessa che ci accoglieva giorno dopo giorno ci avrebbe portato a “callejear”. Quelle “Missioni del Paranà” avevano una calamita potente: il fiume Paranà. Tutti i mercoledì e sabato noi allievi della scuola dell’Immacolata salpavamo in piccole barche con sei remi e una vela latina per andare a fare catechesi ad Alto Verde. Attraversare un fiume è sempre stato un atto fortemente simbolico, nella letteratura e nella vita. Si passa da una realtà a un’altra, dalla riva della vita a quella della morte. Il Rubicone è stato attraversato, e anche la laguna Estigia. Anche noi alunni compivamo un transito, metaforico e reale: passavamo dalle nostre abitudini cittadine e le nostre strade asfaltate ai quartieri fluviali pieni di fango e povertà. Passavamo dalla nostra realtà ad una periferia fisica ed esistenziale. Gli allievi della prestigiosa scuola dell’Immacolata diventavamo “callejeros”. Io pensavo a cosa avrebbe detto mia nonna se avesse potuto vedermi lì. Ma non avrebbe potuto dire nulla: erano gli stessi gesuiti che ci portavano sulla strada per educarci alla missione, ci incoraggiavano a uscire, a metterci in cammino, a diventare “callejeros” della Fede. Ho sempre avuto dei dubbi circa l’efficacia degli insegnamenti che impartivamo ai bambini della zona -la nostra catechesi andava al di là della meccanica delle domande e risposte imparate a memoria- non perché lo facessimo male ma perché in realtà eravamo noi ad imparare da loro. Forse era per questo che i padri gesuiti, e Borgoglio con essi, ci inviavano a missionare: per imparare. E non c’è dubbio che era molto di più quello che imparavamo di quello che eravamo in grado d’insegnare. E quel seme, anche se piccolo, rimaneva. Che potesse dare frutti non dipendeva più da noi, ma dal Buon Dio. Quando dopo una bella doccia ci toglievamo di dosso la puzza di fumo e povertà, guardavamo il nostro letto comodo e caldo e la realtà di essere stati “viandanti/callejeros” per alcune ore ci ripiombava addosso. Non credevamo di essere migliori di altri ma per un momento ci riconciliavamo con la realtà. Nessuno ci chiedeva di abbandonare le nostre vite o le nostre famiglie, e tantomeno l’educazione ricevuta; ci chiedevano soltanto di non dimenticare le vite degli altri. In questo modo ho imparato che portare la fede in giro per le strade non implica assolutamente dimenticare o rinnegare la propria realtà bensì imparare a riconoscere la realtà del fratello che soffre. Non posiamo rimanere chiusi nelle nostre case, continua a dire papa Francesco, quando fuori ci sono tante persone che stanno aspettando il Vangelo: qualcuno abbia il coraggio di aprir bocca per annunciare la Sua Parola, per diventare “callejero de la Fe”. Traduzione dallo spagnolo di Mariana Gabriela Janún
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