Il termine bancar ha più di un significato per il porteño, l’abitante di Buenos Aires. Succede che anche le parole, come la vita stessa, crescano e modifichino il loro senso nell’uso quotidiano che ne viene fatto, o che addirittura prendano su se stesse i cambiamenti che vi introducono le generazioni che le usano. Bancar viene dallo slang, e come quasi tutte le altre parole che condividono tale origine, non erano ammesse nel linguaggio colto delle famiglie bene della capitale argentina, neanche in quello più corrente. Bancar è un’espressione che appartiene al gioco, di più, al gioco in un’epoca in cui il gioco, per lo più, era d’azzardo e pertanto praticato nell’ombra. Nel gioco clandestino c’era sempre qualcuno che “faceva da banco”, e gli altri che puntavano. Da qui sono nate alcune convinzioni, una è che il banco vince sempre e tutti gli altri perdono. Ma c’era anche la speranza che il banco potesse sostenere (“bancar”) qualcuno dei giocatori che glielo chiedesse, per delle necessità economiche impellenti o per pagargli le spese e permettergli di continuare a giocare.
L’atteggiamento del banco, da un certo momento in avanti, si è trasformata in prassi corrente; nel tempo, l’effetto è stato quello di modificare il concetto stesso di bancar, che dapprima prese il significato di “sostenere qualcuno”, poi, per estensione, di reggere o sopportare una situazione complicata, difficile, di sofferenza: A mi amigo yo lo banco (“lo sopporto, sono con lui”) oppure si es necessario me banco la lluvia, el frio o lo que sea (“se c’è bisogno posso sopportare il freddo, la pioggia, qualunque cosa”).
In pratica, o nella realtà dei fatti, chi ci banca è sempre, invariabilmente, qualcuno che conosciamo bene, un amico.
Quel lunedì a Santa Marta le mie domande non avevano limiti, né umani né geografici. Aggiungo a mia difesa che con il passare degli anni ho imparato a puntare più sulla qualità che sulla quantità. Così in più di una occasione facevo una pausa per ritornare a qualche aneddoto simpatico, lontano o vicino nel tempo. Una delle preoccupazioni più importanti, a partire da quel fatidico 13 marzo, riguarda la sicurezza del Papa. Il suo arrivo in Brasile per le Giornate Mondiali della Gioventù, per esempio, ha accelerato parecchio il mio battito cardiaco. Temevo potesse succedere il peggio; vedendo quella carovana titubante che aveva sbagliato strada e sembrava persa tra la folla alla quale sembrava quasi chiedere da che parte doveva andare. Una cosa che ha dell’incredibile per qualsiasi dispositivo di sicurezza ma, allo stesso tempo, sconcertante anche per chi avesse voluto organizzare un attentato. Quando gli ho detto di questa mia preoccupazione per la sua continua esposizione, mi ha risposto:
-Stare in mezzo alla gente mi fa bene. E poi la gente ha bisogno di una parola, una stretta di mano. Mi sento sicuro in mezzo alla gente.
Tutte le mie rimostranze si sono sciolte come neve al sole.
Mi è stato sempre difficile discutere con lui.
-L’importante è lavorare e se uno deve lavorare non può stare tutto il tempo a guardarsi le spalle pensando solo alla sua sicurezza. Io faccio quello che posso, quello che questi tempi mi permettono di fare. Anche il Papa dipende dall’orologio –disse guardando il suo- e il tempo passa veloce! Fra poco ho una riunione con il Segretario di Stato.
- E come ti senti da Papa? –ho buttato lì, così, senza pensarci.
-Guarda Jorge, io ho molta pace. Quando tutto questo è incominciato è stato come entrare in qualcosa di vertiginoso, stranamente vertiginoso perché io non avevo previsto niente, mi sembrava incredibile. Ma poi l’ho presa con molta pace. Non mi azzardavo a pensare che fosse quello che Lui voleva, ma per lo meno non lo aveva impedito e mi sono detto: Si Dios me puso aquí, ¡que Dios me banque! (Se Dio mi ha messo qui, che se la veda lui adesso, che lui se ne faccia carico!)
Mi sono messo a ridere, non so se per l’espressione che aveva usato, quel ¡que Dios me banque! o perché stavo pensando al momento in cui lo avrei scritto in Terre d’America. Ho preso subito nota e lui scuotendo la testa:
-Un’altra per la tua raccolta sul “Gergo di Francesco”. Non ti sfugge niente!
Mi divertiva quella sua umiltà che gli faceva dire: “Non mi azzardavo a pensare che fosse quello che Lui voleva, ma che per lo meno non lo aveva impedito …” ma soprattutto quell’esclamazione finale: ¡que Dios me banque! che sarebbe la traduzione in castigliano argentino popolare del più tradizionale: che Iddio mi protegga!, come dire “sarà Lui a sostenermi!, adesso che se la veda lui!”.
Poi, lungo il Cammino di Santiago che ho intrapreso dopo la visita a Roma, questa espressione mi è venuta in mente diverse volte, facendomi pensare ad un Dio che, nel mio caso, mi ha sopportato (bancado) tanto.
Fa bene ricordare che ci sopporta soltanto chi ci è amico. E in un certo senso anche papa Francesco mi sopporta stoicamente con questo assedio permanente alle sue espressioni per portarle qui in questo spazio. Ma credo che la cosa più importante sia quella di riconoscere che possiamo dire che Dio ci banca quando accettiamo le sfide del Suo disegno su ognuno di noi.
Traduzione dallo spagnolo di Mariana Gabriela Janún
- Quel Dio cattolico che ci “primerea” sempre
- Non “balconear” la vita, ma tuffarsi come ha fatto Gesù
- Una civilizzazione che si è “spannata” ha bisogno della speranza cristiana
- “Hagan lio”, perché la Buona Notizia non è silenziosa…
- Quella nullificazione che cancella l’Altro. Non lasciatevi ningunear…
- Quell’invito a “pescar” uno sguardo nuovo sulla società e sulla Chiesa
- Che pena una gioventù empachada e triste!
- “Misericordiando”. Dialogo con il Papa su un curioso gerundio
- Il “chamuyo” di Dio, seduttore ad oltranza
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