BERGOGLIO VISTO DA VICINO. Intervista a Giuseppe Maria di Paola, il prete villero tornato da pochi mesi nella provincia di Buenos Aires

Di Paola 1

La sua nuova casa, dopo quelle di Villa 21-24 di Barracas e Campo Gallo a Santiago del Estero si distende su una lingua di terra nel municipio di san Martín, ad una trentina di chilometri in linea d’aria dal centro di Buenos Aires, dove c’è anche una discarica che i suoi nuovi fedeli decorano con le carcasse di auto rubate nella capitale. Martedì prossimo, giorno patrio dell’Argentina che celebra l’anniversario della dichiarazione d’indipendenza del 1816, Di Paola tra le auto bruciate pianterà anche la riproduzione della Madonna di Itatì e la croce del Gauchito Gil che porterà dal luogo dove si sono originate le rispettive devozioni. Lì, alla volta di Corrientes, 800 chilometri più a nord, padre Pepe, come lo chiamano un po’ tutti, è partito questa mattina con gente della parrocchia per andare a prenderle, perché di lì sono nativi i suoi nuovi fedeli, spinti verso la periferia di Buenos Aires dal Chaco, Tucumán e Santiago del Estero, dove per un paio di anni Di Paola è stato esiliato per le minacce di morte dei narcotrafficanti che gli sono piovute addosso. Adesso è tornato, intenzionato a ricominciare tutto d’accapo, anzi, ha già cominciato come prima. Di diverso c’è che Bergoglio, arcivescovo e cardinale al momento della sua dipartita, adesso è Papa.

Il Francesco che vedi da qui, dalla baraccopoli La Cárcova dove ti sei stabilito, è lo stesso Bergoglio che visitava quella di Buenos Aires quando eri lì con gli altri sacerdoti?

Quello che sta facendo è nella linea di quello che lui crede debba essere fatto e veniva facendo a Buenos Aires. Quando ha cominciato da vescovo, quando lo abbiamo conosciuto, diceva tante delle cose che gli sentiamo dire adesso, faceva le stesse scelte di adesso che è pontefice. Semmai penso che lo Spirito Santo lo sta assistendo in maniera speciale perché come Papa ha accentuato in lui quella capacità di leadership popolare (liderazgo è il termine spagnolo) che aveva già.

Ma è un salto di scala quello che ha fatto il Bergoglio che conoscevi o adesso viene fuori anche un Bergoglio che non conoscevi?

Dico una cosa che può suonare azzardata, ma penso che lui abbia un dono speciale per il posto che sta occupando adesso. Da Papa lo vedo ancora meglio di prima, quando era vescovo. Lo Spirito Santo lo ha messo nel posto giusto. Bergoglio Papa ha un pensiero che tende ad andare “al di là” dell’usuale, uno sguardo che arriva più lontano del comune, e questo gli conferisce una leadership spirituale molto forte. È un tratto, se vogliamo dire così, che oggi vedo ancor più accentuato di prima.

Nel posto dove ti trovi da alcuni mesi, qui alla periferia di Buenos Aires, hai potuto comprovare concretamente il suo influsso come Papa? Cose puntuali intendo, che prima non succedevano e adesso sì.

Certo, concrete, molte cose e molto concrete. Ne cito una, che posso vedere bene, quella di tanti evangelici che tornano alla Chiesa. O meglio, che sono sempre rimasti cattolici ma hanno poi aderito a un culto differente perché nella Chiesa non si trovavano bene, non si sentivano al loro posto. Dove sono adesso, a La Cárcova, non lo conoscono molto, sono pochi quelli che lo hanno visto di persona, ma sono tantissimi quelli che mi fermano ogni giorno e mi commentano dei gesti o delle parole che hanno ascoltato o visto in televisione per mettermi al corrente, per farmi sapere quello cge fa, quello che dice…

Tu di chi ti senti erede? Se dovessi tracciare una personale genealogia spirituale quali sarebbero gli anelli della catena?

Nella radice della mia vocazione c’è l’ammirazione per San Francesco d’Assisi. La mia immagine sacerdotale più forte è quella di don Bosco. Il sacerdote che più mi ha segnato è Raúl Perrupato, che mi ha presentato. Il sacerdote che per me racchiude un forte contenuto di quello che vorrei essere come prete è padre Carlos Mugica.

Ti consideri un teologo della liberazione?

Negli anni del seminario sono cresciuto con la teologia del popolo di Lucio Gera e Rafael Tello; mi sento più figlio di questo modo di pensare la teologia; credo che questo si noti anche nel modo con cui oriento il lavoro pastorale. La teologia della liberazione l’ho studiata in seminario, e sento molti punti di coincidenza: approvo la lettura che fa della teologia alla luce del popolo e delle circostanze storiche in cui il popolo vive.

Sei in buona compagnia. Anche il Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, il tedesco Gerhard Ludwig Müller, di recente ha detto che «Il movimento ecclesiale e teologico dell’America Latina, noto come “teologia della liberazione”, che dopo il Vaticano II ha trovato un’eco mondiale, è da annoverare, a mio giudizio, tra le correnti più significative della teologia cattolica del XX secolo». Ti sembra che sia arrivato il momento di una riconsiderazione del valore di questa corrente teologica e pastorale per tutta la Chiesa?

Per certi aspetti è anche un po’ tardi ma è certamente positivo che succeda in questa tappa della storia della Chiesa in cui papa Francisco segnala a tutti il bisogno di una Chiesa povera per i poveri. Rileggere la teologia della liberazione nelle sue dimensioni più importanti, a partire dalla immanenza al popolo che l’ha originata, fa vedere come la fede può essere liberatrice. Tutta la storia della salvezza è una liberazione, liberazione dal peccato e realizzazione di una vita piena in questa terra.

Tra una decina di giorni il Papa sarà in Brasile. Sai di persone che vivono nelle villas che andranno a Rio?

Sì, dalle villas della capitale so di molti che ci andranno accompagnati dai sacerdoti che vivono con loro. Molti sono giovani che il Papa lo conoscono già.

Tu sei stato ad una di queste giornate della gioventù?

Alla prima, qui in Argentina nel 1987. Giovanni Paolo II lo sentii da subito come un grande Papa. La sua stessa vita ci catturava, riempiva l’immagine che avevamo di vocazione: uno che era stato operaio, che scalava le montagne, che da Papa andava ovunque, in ogni paese, che ha fermato la guerra dell’Argentina con il Cile, non dimentichiamocelo… Nel seminario lo ammiravamo, per me era un esempio. Quando è venuto a Buenos Aires per la prima giornata della gioventù non lo potevamo credere… Un po’ come questi ragazzi delle villas che andranno adesso in Brasile, lo rivedranno; anzi, per loro sarà qualcosa di ancora più forte e diranno: “ma questo è il Papa che abbiamo conosciuto, che veniva da noi, che camminava per la villa…”.

Nei tuoi 25 anni di sacerdozio hai visto tre papi diversi tra loro, Giovanni Paolo, Benedetto, Francesco…

È vero, ognuno di loro ha una caratteristica speciale. Giovanni Paolo II lo paragonerei a San Paolo, un missionario infaticabile come lui. Uno pensava che per vedere il Papa doveva viaggiare a Roma, e all’improvviso il Papa arrivava e parlava guaranì ad Asunción… Lo sentivamo vicino come mai prima; sono andato in missione in posti reconditi e in case poverissime ho visto la fotografia di Giovanni Paolo II appesa da qualche parte, e lui era polacco, non argentino… Giovanni Paolo II ha passato il testimone a Ratzinger, e Ratzinger, con molto coraggio, ha dato le dimissioni; ha detto “hasta acá llegué”, sono potuto arrivare sin qui, un atto di amore alla Chiesa, un gesto umano, sensato, spirituale…

E Bergoglio lo considera capace di dimettersi?

Si.

Dei papi che hai nominato a chi lo avvicini di più?

A Giovanni XXIII. Come lui segna una nuova tappa per la Chiesa nel suo rapporto con il mondo. È stato eletto da un’ampia maggioranza di cardinali e rappresenta la volontà della Chiesa che sia lui, col suo stile, a cambiarla dove va cambiata. Il popolo, poi, è in sintonia con il Papa, con le sue decisioni.

Torna alla Home Page